
Il silenzio si nasconde nei cortili delle case, tra i rami degli alberi secolari, dentro un pozzo, nelle lanterne, scavalca i balconi di ferro battuto e riposa nelle stanze delle antiche dimore.









Il silenzio è fatto di persiane socchiuse, di palpebre abbassate, di ombre e tenebra e sudore, di pensieri che entrano e escono, di acqua e limone.




Non è detto che tutte le gare ciclistiche si disputino su strada.
Mucomorìs, te ne devi andare. Non puoi restare qui, sono allergica ai gatti. Sono allergica anche ai maiali alle mucche ai cavalli alla polvere al polline alle graminacee ai semi. Sono allergica anche alle rane. Dai Mucomorìs, gatto di marmo, spostati almeno dal tappeto che me lo riempi di peli. Va’ giù in giardino. Come, come? Sei un gatto, hai nove vite: scendi dal balcone.
La colpa, in fondo, è del black-out. E’ da lì che tutto si è rimesso in moto. Se il 28 settembre 2003 l’Italia non fosse piombata di colpo nell’oscurità totale, oggi qualcosa sarebbe diverso. Ma il black-out ha fatto credere a tutti che l’emergenza energia fosse vera e reale. Vogliamo tornare a scaldarci e illuminarci solo con il fuoco delle candele, delle torce e dei camini?
Nel 1931 viene istituita la maglia rosa – il colore della gazzetta - quale simbolo del primato in classifica. Il primo a indossarla è Learco Guerra, vincitore della tappa inaugurale del 19° Giro d'Italia, la Milano-Mantova. Anche una delle mie prime biciclette era rosa.
Tra le idee fallite nella storia della bicicletta ce n’è una che, ancora più del Grand-Bi, mi sorprende: il monociclo. Costruito nel 1869 dalle Officine Rousseau (Francia) ha una ruota alta 2 metri, non ha sterzo, e quello che vedete è l’unico esemplare che si conosca in Europa.
La locomotiva umana: Learco Guerra.
Dunque Binda riuscì a battere anche Girardengo, grande campione, l’amico del bandito, quello della canzone. Storia che tutti conoscete, sennò in due parole ve la racconto.

Per tornare a Dunlop. Come le cose più geniali ed elementari nascono dalle associazioni più impensabili. John Boyd Dunlop era un veterinario scozzese, che lavorava in Irlanda e che, da bravo papà, aveva comprato per il figlio John di dieci anni un triciclo con le ruote di gomma piena. Ma il bambino si lamentava in continuazione per le troppe scosse, e così il bravo veterinario (che mi immagino come quello dell’amaro Montenegro), osservando – pare – le intestina di animali, realizzò dei copertoni contenenti una camera d’aria in gomma, in grado di assorbire urti e vibrazioni del selciato.

La verità è che sta diventando tutto uno schifo. E non solo noi allo schifo, all’inferno ci stiamo abituando e quanto sono più belle le nostre case dentro tanto più fuori è un piattume di gradazioni di grigi e cementi e palazzine e supermercati e iperstrade e tangenziali e raccordi e discariche e rifiuti e odori pestilenziali. Che a uno non viene più neanche voglia di uscire. Non solo. Tutto è talmente uno schifo che non si riesce più nemmeno a rintracciare la causa primigenia e unica dello schifo che penetra nei nostri polmoni e nel nostro stomaco e mette radici nel cervello e si incancrenisce fino a farci morire. Perché la causa unica e primigenia semplicemente non esiste. Sono tutte cause uniche e primigenie o forse siamo noi la causa unica e primigenia, in un circolo vizioso che non avrà mai fine.
La centrale termoelettrica basta a rifornire di energia nove volte il nostro territorio. Però la vogliono raddoppiare, e ne vogliono costruire un’altra a cinque chilometri di distanza.
Perché? La gente per strada ripete quello che ha sentito dire: “ci serve più energia”.
Forse da casa mia riuscirò a vedere anche la nuova centrale, direzione sud-ovest.
Forse un giorno anche noi saremo “la città dalle cento torri”. Come Praga, sogno di pietra, o come Ascoli Piceno, Pavia, Bologna, Chieri, San Gimignano. Una selva di falli eretti verso il cielo, sperma di polveri e vapore, a inseminare di necrosi terre uomini alberi e animali.
E come Alba avremo anche noi il nostro Borgo del Fumo, e quello delle ceneri.
I nostri cento fumanti camini intossicheranno l’aria, e spazzeranno definitivamente via la sognante nebbia assassina che un tempo, d’inverno, i campi alitavano per scaldarsi un po’.
L’idea del copertone avuta dai fratelli Edouard e André Michelin, produttori di articoli in gomma, era molto semplice. Si trattava di dividere il pneumatico in due parti: un tubo in caucciù dotato di una valvola, inserito in un tubo più spesso e resistente, facilmente smontabile dal cerchione. Il tutto semplificava la vita: per riparare una gomma forata, bastava estrarre la camera d'aria e rappezzarla o sostituirla con una nuova.
Nel 1879 un produttore di Coventry, Harry John Lawson, brevettò un biciclo con trasmissione a catena e ruote di piccole dimensioni. Lo chiamò "bicyclette".
Poi qualcuno pensò di ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo. E inventò il Grand-bi, lo High Bycicle. Come sempre, quando c’è di mezzo un’invenzione, salta fuori più di un nome: e non si sa più se quel ‘qualcuno’ è il francese Victor Renard, l’inglese James Starley o Eugene Meyer. O forse, più semplicemente: tutti. Siamo alla fine degli anni 1870.
Prima che si arrivasse ad un sistema di pedali e pedivelle dovettero passare altri vent'anni. Fu un fabbro scozzese, tale Kirkpatrick McMillan, intorno alla fine degli anni 1830, ad avere l’idea. Costruì nella propria officina la prima bicicletta dotata di un sistema di pedivelle attaccate direttamente alla ruota posteriore.
I tedeschi, dopo i francesi. Nel 1817 K. F. Drais von Sauerbron inventò la draisina, che si chiamava così perché fu lui a inventarla. Che se la inventavo io l’avrebbero chiamata la lorenzina. K. F. Drais von Sauerbron ebbe l’intuizione di applicare a un celerifero di sua costruzione un rudimentale sterzo, semplicemente collegando il manubrio al telaio, in modo che la ruota anteriore fosse autonoma e non si dovesse ogni volta scendere dal mezzo per cambiare direzione. Gli inglesi poi perfezionarono l’invenzione, con il “calessino per pedoni”.
La storia della bicicletta è una storia bastarda. Questa invenzione che gli uomini si rigirano nella testa da migliaia di anni e che permette di usare al meglio la più elementare e geniale delle invenzioni umane (la ruota) porta nel dna tracce di tanti popoli.

Mi affaccio al balcone e vedo in lontananza due torri a righe bianche e rosse, alte più o meno trecento metri. Due torri gemelle in direzione nord-est. Due camini fumanti che di notte si illuminano di lucine rosse, come fari per gli aerei di passaggio: le torri della centrale termoelettrica.
Non è quello che si definisce un bel panorama, ma certe mattine all’alba, quando il sole non è ancora sorto e il cielo è limpido e sgombro di nebbia e fumi e degrada dal rosa al giallo mi sono quasi commossa di fronte alle Alpi, con davanti le torri della centrale e la luna piena che ancora non ha lasciato lo spazio a fratello sole-pallido.
La centrale è l’erede di un vecchio impianto degli anni ’50 e sfrutta le acque fredde dei canali che le stanno intorno e i giacimenti di gas naturale, di cui la nostra terra è tanto ricca e di cui resta memoria nella leggenda del Drago Tarantasio.
Si narra che un tempo grandi alluvioni ed esondazioni crearono proprio qui un lago, che venne chiamato Mar Gerondo. E dal lago salivano tanti e tali fumi e puzze e esalazioni malsane e pestiferi miasmi che appestavano tutto l’aere e intossicavano e ammalavano e morivano le persone. I più ricchi si diedero alla fuga. I medici non sapevano più che pesci pigliare.
- E’ colpa del mostro Tarando che dimora nei pantani del lago – dissero con autorità. E alcuni giurarono anche di averlo visto. Il mostro era un drago e secondo quanto sostengono i latini (e soprattutto: secondo quanto sostiene Aristotile, che non si può certo contraddire!) i draghi non solo esistono ma sono parenti stretti dei rettili e dei serpenti. Da cui il nome Tarando, da tarantola, poi Tarantasio.
Tutti sanno che i draghi nascono dalla spina dorsale degli uomini morti e questo drago qui doveva esser nato dal corpo putrefatto di Ezzelino da Romano, quel can feroce figlio del demonio che qualche anno prima era morto nella battaglia presso Cassano ed era stato sepolto da queste parti. Già. Proprio così. Che fare, dunque? Solo un intervento divino poteva cacciare il malefico e mefitico essere immondo. Si chiamarono vescovo, preti, curati, si fecero processioni e voti. E finalmente la notte di San Silvestro del 1299 si verificò il miracolo: il lago si prosciugò e sul fondo, sotto le mura della città presso il Molino della Madonna, furono trovate le reliquie di Tarantasio: una grande costola di drago, che venne spostata di qui e di là e infine esposta nella Chiesa di San Cristoforo, il santo evocato per il miracolo.
Passò poi un’équipe di paleontologi e sostenne che trattavasi di costola di cetaceo. Beh, che differenza fa? Chiesero alcuni. Sempre di leviatano si tratta. E la costola magicamente scomparve.
Ma si sa che il drago Tarantasio era un drago della specie mista, per cui poteva sopravvivere anche fuori dall’acqua. Secondo me è volato via.
Ca’ Alta si chiamava così perché si trovava nel punto più alto e più esterno del colle su cui l’imperatore Federico Primo di Svevia detto il Barbarossa aveva rifondato nel 1158 la città. Non c’erano strade che portavano alla Ca’ Alta, non c’era modo di arrivarci, e chi ci abitava non si spostava mai. Ma se avevi fortuna e passavi da quelle parti nell’esatto istante in cui la luna tocca la punta del monte Everest, lontano da qui, allora avresti anche potuto vedere un serafino equilibrista pedalare serafico su un congegno simile a una bicicletta, ma con una ruota sola. E se eri vestito d’azzurro il serafino ti avrebbe guardato e ti avrebbe chiesto: “posso accompagnarti, solitario viaggiatore?” E tu, montato non si sa come sul ciclo celestiale, avresti raggiunto la Ca’ Alta e da lì non ti saresti più mosso per tutta la vita. Dalla Ca’ Alta si riusciva a vedere un paesaggio sterminato e ad avere gli stessi pensieri del Barbarossa.
La mia casa è circondata da altre case, che sono circondate da case, e tutte le case sono circondate da cortili di cemento (per far rimbalzare meglio i palloni da pallacanestro) e da fossati grigi di garage, dove riposano i cinquanta - a volte cento - cavalli dei ricchi signori. E vicino alle case palazzi più alti, torri d’avvistamento per i deltaplani, piste d’atterraggio per angeli in caduta.
La zona in cui abito è tranquilla. Pochi i rumori esterni, anche se non siamo lontani dalla ferrovia e nemmeno da alcune vie principali della città. In compenso sento tutto quello che dicono e fanno i vicini di casa, con una curiosità a volte morbosa a volte infastidita.
In questo appartamento di periferia (ma sugli annunci immobiliari si legge: ‘zona centro’) l’atmosfera è calda, temperatura costante intorno ai venti gradi, d’estate e d’inverno, c’è da mangiare, da bere, da fumare e tutto quello a cui ormai siamo abituati ma che ottant’anni fa nemmeno ci si sognava di avere: cento metri quadri di parquet e pavimenti di marmo, due stanze da letto, due bagni, una cucina e una sala, due balconi, acqua corrente, luce e gas, marchingegni elettrodomestici che in molte funzioni sostituiscono l’uomo: lavatrice, televisore, videoregistratore, dvd, stereo, forno elettrico, aspirapolvere, ferro da stiro, frullatore e tre computer, uno scanner, una stampante. E’ arrivata persino l’adiesselle.
La casa è grande, al quarto piano di un palazzo vicino al centrocittà. E già la parola ‘vicino’ acquista un significato tutto particolare ora, nel ventunesimo secolo. In realtà, andando indietro di un’ottantina d’anni, la casa in questione non solo non esisteva ma era in quella che si poteva allora considerare ‘estrema periferia della città’ e che ora invece è ‘vicino’.
Ci ho pensato un po'. Poi ho deciso che mi sarei divertita. In gennaio ho creato questo blog. Ho postato qualche messaggio di prova. Non sapevo che farne. Poi un'amica ha mandato una mail ricordando i "buoni propositi per il 2005". E io, tra i buoni propositi (e lei lo sapeva) avevo messo quello di concludere una delle mille cose che sto scrivendo. Da oggi quindi, una volta al giorno pubblicherò in questo blog (in ordine) pezzi di un "qualcosa", forse un libro, che sto scrivendo. Ha già un nome: Fino a che punto. Non è un romanzo. Ha un inizio e una fine. E' molto autobiografico. Ma mi è venuto così. Frutto delle riflessioni di questo inverno infinito. Grazie, miei venti lettori. Magari sarete proprio voi a dirmi che farne. Un bacio. Lo.
Il concetto di bicicletta è molto semplice ed è rimasto immutato nei secoli: due ruote, un asse, un manubrio e una catena che collega i pedali alla ruota posteriore. Spiega l’enciclopedia Treccani (cito): Bicicletta: “veicolo a due ruote gommate, poste l'una dopo l'altra, fatto di norma per una sola persona che, a cavalcioni su un sellino, aziona la ruota posteriore con la forza muscolare delle gambe tramite pedali, mentre con le mani impugna il manubrio, sterzando con la ruota anteriore per dare la direzione di marcia al veicolo stesso.” In realtà le ruote non sono sempre state “gommate”, all’inizio non esisteva il sellino e nemmeno i pedali, si doveva camminare, e le suole delle scarpe si consumavano in fretta. Non si poteva sterzare.
(Chorisia speciosa A. St.-Hil. 1828 - Ceiba speciosa Rabean 1998)
Da tremila metri le cose assumono un'altra prospettiva. Le case sono puntini nel paesaggio e le automobili lucicchiole bianche o rosse che si spostano da un lato all'altro nel quadro nero della notte. Ecco dunque che l'altezza e la frescura disegnano il primo buon proposito per il 2005 : la consapevolezza delle nostre dimensioni nel mondo.
Se fossi un mese sarei: maggio, l'attesa.