venerdì 31 dicembre 2010

La felicità.

Scrivere non c'entra niente col fare soldi, diventare famoso, crearsi occasioni galanti, agganciare una scopata o stringere amicizie. Alla fine è soprattutto un modo per arricchire la vita di coloro che leggeranno i tuoi lavori e arricchire al contempo la propria. Scrivere è tirarsi su, mettersi a posto e stare bene. Darsi felicità, va bene? Darsi felicità.
Stephen King, On writing

lunedì 29 novembre 2010

E poi?

«Cosa credi?» mi fa, indicandomi un libro con la copertina macchiata di caffè posato sul divano, L'adolescente. «Che quel monsù Dostoevskij lì i suoi genitori l'hanno spedito a studiare da scrittore? È diventato uno scrittore perché voleva diventarlo. Più di ogni altra cosa al mondo. E perché il bel Feodor si divertiva, oltre che a giocare alla roulette, altresì a scrivere. Tu effettivamente alla roulette non giochi. Ma ti diverti quando suoni con le matite sul tuo fustino di Dash rovesciato?»
«Sempre.»
«Vedi? Non hai bisogno di andare alla scuola di fallimento al conservatorio. Tavanate ne farai, non ci piove. E certi giorni ti sembrerà che non vale la pena di continuare. Crederai di aver buttato via un badò di tempo.»
«E poi?»
«E poi continuerai lo stesso.»
«E poi poi?»
«E poi poi un po' alla volta migliorerai.»
«E poi poi poi?»
«E poi poi poi, un giorno, quando tuo nonno probabilmente ormai sarà bell'e che morto e defunto, cose che mi rincresce giusto perché a me quel momento piacerebbe vederlo ma che in fondo non importa, scoprirai di essere diventato un signor batterista, addirittura un innovatore. E allora diubunsì che comincerà la parte davvero tremenda, perché da lì in avanti dovrai proprio dare l'anima. Ma finché continuerai a divertirti, non importa.»
Giuseppe Culicchia, Il paese delle meraviglie.

venerdì 26 novembre 2010

Il compleanno secondo Emma


La mia nipotina compie un anno e siamo già tutti pronti a fare festa: mamma, papà, nonni, zii, amici e cugini. Ci sarà persino il bisnonno. Chissà se dopo settimane di allenamento riuscirà a soffiare la candelina, o se la spegnerà con la mano (c'è chi dice che dovremmo lasciarla fare così imparerebbe subito il detto "non scherzare con il fuoco"). Adesso vi svelo come lei ha pensato di festeggiare. L'ha chiamato "il party dei calzini". Ci troviamo tutti a casa sua (in quella nuova) e andiamo nella sua cameretta a tirare fuori tutti i calzini di tutti i colori, e poi giochiamo a portarli in giro per la casa. Qualcuno potrebbe mettersi in testa la calzamaglia. Poi togliamo tutti i libri dalla libreria e giochiamo al bubu-settete e a rincorrerci gattonando.Balliamo tutti sulla musica di The lion sleeps tonight, il coccodrillo come fa, I due liocorni e La vecchia fattoria. Prima di mangiare ci laviamo tutti le mani nel bidet, naturalmente. Come dolce ha preparato del buonissimo pane saliva, annaffiato da bava di prima qualità (si vede che suo papà è un grande cuoco) e un kinder gigante. E come regalo? Come regalo lei vorrebbe un cellulare, o un telefono, o un videocitofono, ma vanno bene anche un computer o una chitarra. O un libro. Meno male. Buon compleanno!

mercoledì 24 novembre 2010

Le lacrime di Primo.

foto di Mauspray

Stamattina a scuola Primo, un bambino magro e sdentato, si è messo a piangere perché non voleva lavorare al computer con Ultimo, robusto e prepotente. Ultimo ha visto le lacrime di Primo e non ha detto niente, del resto se uno piange, avrà le sue ragioni. Che c'è, che succede? ho chiesto. A quanto pare, Ultimo è un bambino difficile. «Si butta sempre per terra, ci picchia, e non fa mai quello che dice la maestra» mi ha sussurrato una bambina, come a volermi spiegare perché Primo piangeva. Ma la maestra non ha voluto sentire ragioni: «devono lavorare insieme» ha sentenziato, e poi se n'è andata. Nessuno ha chiesto a Ultimo se aveva voglia, lui, di lavorare con Primo. E poi come se niente fosse, si sono lasciati accompagnare al computer, che per loro era una cosa nuova. E il computer ha fatto quello che fa sempre, con tutti: li ha distratti. Primo dalle lacrime, Ultimo dalle prepotenze. Li ho lasciati fare, osservandoli a distanza di sicurezza, concentrati sui tasti, su come fare un apostrofo, lo spazio tra le parole e le virgolette, il terribile punto di domanda. Sembravano quasi amici. Chissà se fuori dall'aula di informatica è nata un'amicizia, o se Ultimo ha aspettato Primo in bagno per vendicarsi delle lacrime.

sabato 6 novembre 2010

La cimice rossa.

L'altro giorno ho visto una cimice rossa. Era rossa, perché l'ho trovata nascosta sotto la tovaglia rossa del tavolo sul balcone. Ma quello che non ho capito è se era rossa, perché le cimici si mimetizzano, o solo perché aveva assorbito la tinta della tovaglia. L'ho fatta volare via. Forse era un segno di resistenza, o di ribellione, certo non avrà vita facile in un mondo di cimici verdi.

lunedì 1 novembre 2010

La mia biblioteca personale.


Tutti perdiamo continuamente tante cose importanti, - dice quando la suoneria del telefono si è placata. - Occasioni preziose, possibilità, emozioni irripetibili. Vivere significa anche questo. Ma ognuno di noi nella propria testa - sì, io immagino che sia nella testa - ha una piccola stanza dove può conservare tutte queste cose in forma di ricordi. Un po' come le sale della biblioteca, con tanti scaffali. E per poterci orientare con sicurezza nel nostro spirito, dobbiamo tenere in ordine l'archivio di quella stanza: continuare a redigere schede, fare pulizie, rinfrescare l'aria, cambiare l'acqua ai fiori. In altre parole, tu vivrai per sempre nella tua biblioteca personale.
Haruki Murakami, Kafka sulla spiaggia

martedì 19 ottobre 2010

Chiacchierarono un po'.

Chukie non aveva mai capito che senso avesse. Quando era piccolo, come la maggior parte dei bambini, aveva osservato con insofferenza la vita degli adulti. Gli sembrava che non facessero altro che chiacchierare: non si rincorrevano mai, non giocavano, non si divertivano. Non c'era dinamismo nella loro vita, bensì una sorta di vuoto esistenziale. Per molto tempo aveva pensato alle prospettive di una vita adulta con grande sconforto. A cosa servivano tutte quelle parole? Avrebbe dovuto parlare tanto anche lui? Perché? E avrebbe dovuto anche stare ad ascoltare gli altri?
McLiam Wilson, Eureka street

domenica 17 ottobre 2010

È vero.

foto di nandowalter

Be', le tartarughine acquatiche le devi lasciar perdere. Sono animali tosti. A sangue freddo. Non muoiono mai. Bestie tropicali, abituate a vivere nell'acqua calda ma stanno benissimo anche nell'acqua fredda, dove diventano grandi come padelle. E in natura esistono pochi animali più voraci e aggressivi delle tartarughe acquatiche. Peggio dei coccodrilli, che sono voraci pure loro, ma dopo che sono sazi si abbattono sulla riva e li puoi prendere a calci che nemmeno ti filano. Invece le tartarughe hanno sempre fame.
Niccolò Ammaniti, Come dio comanda

sabato 16 ottobre 2010

Il desiderio.

Non possiamo smettere di desiderare, e questo ci esalta e uccide al contempo. Il desiderio! Ci sostiene e ci crocifigge, portandoci ogni giorno sul campo di battaglia dove ieri abbiamo perso ma che, nel sole di un'altra giornata, ci sembra nuovamente un terreno di conquista; e anche se domani moriremo, il desiderio ci fa erigere imperi destinati a diventare polvere, come se la consapevolezza che presto cadranno non riguardasse la sete di edificarli ora; ci infonde l'energia di volere sempre quello che non possiamo possedere e ci getta all'alba sull'erba disseminata di cadaveri, affidandoci fino alla morte progetti che appena compiuti subito rinascono. Ma è così estenuante desiderare incessantemente...
Muriel Barbery, L'eleganza del riccio

martedì 7 settembre 2010

Migrar

Ma se qualche cosa poteva far sorridere, lo spettacolo, tutt'insieme, stringeva l'anima. Certo, in quel gran numero, ci saranno stati molti che avrebbero potuto campare onestamente in patria, e che non emigravano se non per uscire da una mediocrità, di cui avevano torto di non contentarsi; ad anche molti altri che, lasciati a casa dei debiti dolosi e la reputazione perduta, non andavano in America per lavorare, ma per vedere se vi fosse miglior aria che in Italia per l'ozio e la furfanteria. Ma la maggior parte, bisognava riconoscerlo, eran gente costretta a emigrare dalla fame, dopo essersi dibattuta inutilmente, per anni, sotto l'artiglio della miseria. (...) Tutti costoro non emigravano per spirito d'avventura. Per accertarsene bastava vedere quanti corpi di solida ossatura v'erano in quella folla, ai quali le privazioni avevano strappata la carne, e quanti visi fieri che dicevano d'aver lungamente combattuto e sanguinato prima di disertare il campo di battaglia. (...) E mettevano più pietà, se si pensava a quanti di loro avevan già forse in tasca dei contratti rovinosi, stretti con gli incettatori che fiutano la disperazione nelle capanne, e la comprano; a quanti sarebbero stati afferrati all'arrivo da altri truffatori, e sfruttati tirannicamente per anni; a quanti altri forse portavano già nel corpo, da troppo tempo mal nutrito e fiaccato dalle fatiche, il germe d'una malattia che li avrebbe uccisi nel nuovo mondo. E avevo un bel pensare alle cagioni remote e complesse di quella miseria, davanti alla quale, come disse un ministro, "ci troviamo altrettanto addolorati che impotenti", all'impoverimento progressivo del suolo, all'agricoltura trasandata per la rivoluzione, alle imposte aggravate per necessità politica, alle eredità del passato, alla concorrenza straniera, alla malaria. Mio malgrado, mi risonavano in mente, come un ritornello, quelle parole del Giordani: il nostro paese sarà benedetto quando si ricorderà che anche i contadini sono uomini. Non mi potevo levar dal cuore che ci avevano pure una gran parte di colpa, in quella miseria, la malvagità e l'egoismo umano: tanti signori indolenti per cui la campagna non è che uno spasso spensierato di pochi giorni e la vita grama dei lavoratori una querimonia convenzionale d'umanitari utopisti, tanti fittavoli senza discrezione né coscienza, tanti usurai senza cuore né legge, tanta caterva d'impresari e di trafficanti, che vogliono far quattrini a ogni patto, non sacrificando nulla e calpestando tutto, dispregiatori feroci degli istrumenti di cui si servono, e la cui fortuna non è dovuta ad altro che a una infaticata successione di lesinerie, di durezze, di piccoli latrocini e di piccoli inganni, di briciole di pane e di centesimi disputati da cento parti, per trent'anni continui, a chi non ha abbastanza da mangiare. E poi mi venivano in mente i mille altri, che, empitisi di cotone gli orecchi, si fregan le mani, e canticchiano; e pensavo che c'è qualche cosa di peggio che sfruttar la miseria e sprezzarla: ed è il negare che esista, mentre ci urla e ci singhiozza alla porta.
Edmondo De Amicis, Sull'oceano

lunedì 6 settembre 2010

Argentinos y tanos.

opera di Dante Silva

Ma fra il loro orgoglio nazionale e quello degli europei mi parve corresse una differenza notevole, che mentre noi lo fondiamo sul passato, e sempre su questo ripicchiamo vantandoci, essi del passato non discorrevan quasi mai, e in ogni frase accennavano all'avvenire, col ritornello dell'infanzia: - Quando saremo grandi. - E in tutti loro appariva profonda, salda, lucidissima non la speranza, ma la certezza di riuscire col tempo un popolo enorme, gli Stati Uniti dell'America latina, brulicanti dalla vallata delle Amazzoni agli estremi confini della Patagonia. E la loro coscienza di esser chiamati a questo primato, si poteva anche riconoscere nello studio che ponevano in ogni occasione a dimostrare l'originalità del loro popolo, non solo rispetto ai vecchi padri spagnuoli, dei quali parlavano con una leggera intonazione di canzonatura, come di gente da cui per fortuna avessero sotto ogni aspetto dirazzato, non risentendo più da loro alcun influsso di nessuna specie; ma anche rispetto agli altri popoli latini dell'America, Chileno, Peruviano, Boliviano, Brasiliano (...) Per loro il viaggio dall'America all'Europa era come per noi una gita da Genova a Livorno: l'avevan già fatto più volte: poiché, sia qual si voglia il sentimento che hanno di sé e il concetto che hanno di noi, l'Europa è sempre per loro l'antica madre, la grande patria del loro intelletto, e li attira. (...)- Voi altri, - diceva, - affollati in un campo ristretto, e sopraccarichi di storia, di leggi e di tradizioni, dovete camminare adagio, e condotti dai vecchi: ma noi giovani di trecent'anni, che abbiamo per patria una terza parte del Sud America, e che dobbiamo riguadagnare in fretta il tempo perduto nella lotta coi selvaggi e nella guerra di trasformazione sociale da cui siamo appena usciti, bisogna che andiamo innanzi di carriera, e guidati dall'età dell'impazienza e dell'audacia. - E scherzava sull'"abuso" della vecchiaia che si fa in Europa. - Pare che la canizie, tra voi, sia il titolo necessario per certe cariche. Avete delle malattie che danno il diritto a certi onori. Che so io? la podagra fa tutto. La vostra gioventù si stanca in un'aspettazione interminabile, e vi ritrovate negli uffici che richiedono più vigore di mente e di nervi appunto nell'età in cui il vigore viene meno. Sciupate tutte le vostre forze a salire, e quando siete sulla cima suona l'ora della morte.
Edmondo De Amicis, Sull'oceano, 1884

lunedì 23 agosto 2010

Los ojos de la luna / The eyes of the moon


Los ojos de la luna nos miran desde lejos. Cada uno de un color, como los ojos del rey de los duendes, porque es la princesa de los duendes. Pero el laberinto de la vida nos impide llegar hasta ella y sólo nos queda soñar y mirar al cielo en las noches claras...

martedì 10 agosto 2010

Lo sparpetuo

Il verbo - ho trascritto diligentemente stamattina - è sparpetià o sparpetejà. Deriva da palpitare, a cui è stato applicato il prefisso s per togliergli il pulsare ritmico delle viscere e immetterci lo scombino degli organismi morenti, i colpi a vanvera degli artigli, l'aria percossa con le ali, la testa che si dimena, il becco che annaspa, le ultime scosse. Si passa così a spalpitare e in seguito, grazie al rotacismo e all'inserimento del suffisso iterativo, a sparpetià. Ma perché - ho ricopiato, - dopo decenni di lontananza da Napoli sparpetuo mi è tornato in mente non per dire, mettiamo, di una gallina sgozzata, ma per assegnare una parola alla follia del corpo dell'ingegnere? Non ho una risposta sicura. Però, azzardo, nel pronunciare le parole, nel pensarle, nello scriverle, assorbiamo ogni loro strato, anche se non ce ne rendiamo conto. Se sparpetuo, dunque, mi evoca l'agonia del morente, palpitare, che è dentro sparpetuo, mi sospinge verso i palpiti d'amore e mi butta in un vortice di senso. Così, da palpiti, salta fuori palpare, e da palpare pàlpere, e da pàlpere palpebra, e da palpebra le ciglia palpitanti e, subito dopo, gli occhi spalpitanti che si chiudono dopo lo sparpetuo. Tuttavia non basta, la catena non si esaurisce qui. In sparpetuo c'è sì palpitare, spalpitare, ma anche perpetuo. Io, per esempio, il lampo dell'energia verbale di perpetuo sono assolutamente sicuro di averlo percepito sempre, sia da ragazzino, quando sentivo sparpetuo in bocca a mia nonna, sia da uomo maturo, quando ero sulla soglia del bagno e vedevo l'ingegnere dimenarsi e torcersi. Lo sparpetuo non è infatti una cosa di pochi secondi a fine vita, ma ci incalza in continuazione. La vita, esclusi pochi momenti di serenità, è tutta uno sparpetuo, uno spalpitio, un tremore, un digrignar di denti con occhi smerzati per l'ansia, fin dalla nascita. Lo sparpetuo, cioè, è perpetuo. E perpetuo mi ha spinto con naturalezza verso un vocabolo toscano, sperpetua. Mai sentito, prima di questa ricerca. La sperpetua è la scalogna, Niccolò Tommaseo ne dà questa definizione: un lamentìo che piange uggiosamente il male passato e presente e che piangendo quasi chiama il male avvenire. Però la cosa più interessante, per me - nel taccuino era sottolineata con l'evidenziatore verde, - è stata apprendere che la sperpetua, all'origine, era nientemeno la lux perpetua del Requiem. Vale a dire: la lux perpetua menzionata nell'uffizio dei morti è diventata in toscano, viaggiando di bocca in bocca, la (luc) sperpetua, la cattiva ventura di dover morire. Facile, a quel punto, immaginarmi che la stessa lux perpetua, vagabondando in napoletano, era diventata lu(c) sparpetuo, gli spasmi dell'agonizzante a un passo dalla morte.
Domenico Starnone, Spavento
nell'immagine: l'orixà Omolu nell'interpretazione di Guido Boletti

domenica 8 agosto 2010

Campare.

illustrazione di Gabriel Ippoliti

Mi piaceva tutto, lo studio, la politica, i godimenti, l'amore. Campare per me coincideva con quella smania.
Campare, sottolineai, e le parlai a lungo della densità del vocabolo nel mio dialetto. In quella parola la fatica di stare al mondo conviveva col godimento. La doppiezza si sentiva molto bene nel sostantivo campata. La campata era il denaro che un uomo deve guadagnare nel corso di una giornata per nutrire la sua famiglia e se stesso, la materiale sussistenza, un tetto sulla testa, lo stomaco da riempire. Ma era anche, con una segretissima torsione, un gioioso rapporto sessuale: farsi una campata. Tant'è vero, le dissi, che chi si dedicava alle campate con passione, si meritava un appellativo da professionista del godimento, era un campatore, vale a dire un viveur.
Domenico Starnone, Spavento

giovedì 29 luglio 2010

Le aste.

mio papà

Di tanto in tanto mi fermavo dietro qualche alacre scribacchino, mi chinavo e leggevo qualche riga. A vedere le loro terribili grafie, ho esclamato una o due volte: "Vi rimanderei a fare le aste." Ma, dalle facce perplesse che hanno fatto, ho scoperto che non sapevano cosa fossero. Allora ho raccontato: "La scrittura ai miei tempi era una cosa importante." E, mentre loro si disponevano a fingere di ascoltarmi e intanto pensavano "vecchio bacucco", ho seguitato: "In prima elementare, prima di passare alle lettere dell'alfabeto, ci allenavano la mano facendoci tracciare per qualche mese segmenti tremolanti: obliqui, in diagonale, verticali. Quelle erano le aste. Poi, una volta addestrati i muscoli e i polpastrelli alla giusta tensione, a un'adeguata pressione, a un'equilibrata fermezza, a una duttilità controllata, ci concedevano, per pagine e pagine, la lettera a, prima minuscola poi maiuscola. Infine, col contagocce, tutte le altre lettere dell'alfabeto."
"Ah" si sono ipocritamente interessati i miei allievi.
"Un piacere, un godimento" mi sono esaltato.
Ma mentivo. Ho provato, piuttosto, per un attimo, tutta l'ansia di allora e ho rivisto il banco nero, un catafalco da funerale, col ripiano obliquo che si sollevava come il coperchio di una bara per infilarci sotto la cartella.
Con tono mento entusiastico ho riprovato a raccontare: "Avevo una penna che era composta di un'asta tricolore e di un pennino. Il pennino per la scrittura di pregio si chiamava cavallotti." Sul banco - ho seguitato - erano incastrati un contenitore di metallo dentro cui i bidelli mettevano ogni mattina l'inchiostro. Il pennino si intingeva lì. Ma noi ci mettevamo a bagno anche le dita. O ci annegavamo le mosche. O ci ficcavamo la carta assorbente. E mi sono lasciato scappare: "Avevo paura di tutto. Avevo paura soprattutto di quel foro dell'inchiostro."
C'erano altre cose da dire, ma ho percepito sguardi ironici, risatine e Deborah che mi rifaceva il verso a bassa voce: "Aveva paura dell'inchiostro." Inoltre Ernesto - l'unico che contrariamente al solito stava già scrivendo fitto fitto - mi ha interrotto con fastidio dicendo: "Dopo ti debbo parlare."
Ho gridato: "Basta, non perdete tempo." E me ne sono andato in un angolo del cervello a estrarre in solitudine l'alfabeto di tanti anni fa.
Domenico Starnone, Il salto con le aste

martedì 27 luglio 2010

Come si cacciano i tordi in Provenza.

inserito originariamente da fvaldes

"Sai come si cacciano i tordi in Provenza?" gli chiese Olga sfregandosi pensosamente il naso rosso per il freddo.
"No" rispose Michele.
"Se ne prende uno" seguitò lei, "non gli si fa del male, lo si mette in una gabbia, e durante l'inverno si attacca la gabbia al più alto ramo dell'albero."
"E con questo?" la interruppe lui, imbarazzato da quel bell'uso della lingua orale, dall'accento curato, dalla voce profonda.
"Il tordo è in pieno cielo e canta liberamente" lei gli illustrò. "Il risultato? Tutti i tordi che passano nel cielo riposano sull'albero."
Michele vedeva alberi e tordi. Ne percepivo l'incantamento, forse anche Anna. Era sedotto da quella capacità di parola non puramente comunicativa.
"Non capisco" disse.
Ma era chiaro che non gli importava di capire. Gli importava la scoperta che una donna potesse tirare fuori dalla bocca tordi così, con fantasia, con eleganza e insieme con sprezzatura. Lo disorientava che questo gli piacesse.
"Il cacciatore li vede e li uccide" ha concluso Olga: "il cacciatore non uccide il tordo che canta. Uccide gli altri."
Domenico Starnone, Il salto con le aste

venerdì 9 luglio 2010

No al bavaglio, no alla censura


No al bavaglio, no alla censura, inserito originariamente da a n n a*.

lunedì 3 maggio 2010

Una tempesta di sabbia.


foto di Annalisa Mamoli

Qualche volta il destino assomiglia a una tempesta di sabbia che muta incessantemente la direzione del percorso. Per evitarlo cambi l'andatura. E il vento cambia andatura, per seguirti meglio. Tu allora cambi di nuovo, e subito di nuovo il vento cambia per adattarsi al tuo passo. Questo si ripete infinite volte, come una danza sinistra col dio della morte prima dell'alba. Perché quel vento non è qualcosa che è arrivato da lontano, indipendente da te. E' qualcosa che hai dentro. Quel vento sei tu. Perciò l'unica cosa che puoi fare è entrarci, in quel vento, camminando dritto, e chiudendo forte gli occhi per non far entrare la sabbia. Attraversarlo, un passo dopo l'altro. Non troverai sole né luna, nessuna direzione, e forse nemmeno il tempo. Soltanto una sabbia bianca, finissima, come fosse fatta di ossa polverizzate, che danza in alto nel cielo. Devi immaginare questa tempesta di sabbia.
Murakami Haruki, Kafka sulla spiaggia

lunedì 12 aprile 2010

Frankie goes to Hollywood


A volte penso che la tartaruga Frankie sia stupida a volte troppo intelligente. Quando entro in casa, la trovo abbarbicata sulle rocce dell'acquario ma non appena sente i miei passi si tuffa in acqua e corre a nascondersi sotto le foglie della pianta artificiale o si aggrappa alla lampada riscaldante. Come se non la vedessi. Ogni tanto la trovo che agita le zampe attaccata al vetro, sempre nella stessa posizione: è il suo modo per dirmi che ha fame. Ma lei ha sempre fame; per questo ogni tanto la ignoro. I microcroccantini di cui si nutre le piace prenderli dal mio dito, a cui si aggrappa con tutta la forza delle sue piccole fauci, ma prima di ingoiarli li inzuppa nell'acqua, per ammorbidirli un po'. Chissà da dove viene Frankie, e dove vuole andare. Un giorno le farò conoscere Tarzan, la tartaruga di mia sorella, che in confronto a lei è un dinosauro. O magari la daremo a Polliciotta per giocarci un po' insieme. Così non si sentirà più sola.

sabato 9 gennaio 2010

Sogni, e favole.

Sogni, e favole io fingo; e pure in carte
mentre favole, e sogni orno, e disegno
in lor, folle ch'io son, prendo tal parte,
che del mal che inventai piango e mi sdegno.
Ma forse, allor che non m'inganna l'arte,
più saggio io sono? E' l'agitato ingegno
forse allor più tranquillo? O forse parte
da più salda cagion l'amor, lo sdegno?
Ah che non sol quelle, ch'io canto, o scrivo,
favole son; ma quanto temo, o spero,
tutto è menzogna, e delirando io vivo!
Sogno della mia vita è il corso intero.
Deh tu, Signor, quando a destarmi arrivo,
fa ch'io trovi riposo in sen del Vero.
Metastasio