lunedì 11 febbraio 2013

Forse la quinta è l'idea buona. Intervista a Alejandro Dolina.

Dovessi raccontarvi come ho conosciuto Alejandro Dolina, dovessi. Ma non lo farò.
Ci metterei troppo. Riassumendo: un amico me ne parlò in Francia, nel 1998, e la prima volta che andai a Buenos Aires, assistetti al suo programma radio, La vendetta sarà terribile. Lo trasmettevano dal vivo dallo scantinato dello storico Cafè Tortoni. Non conoscevo la lingua, tutti ridevano alle battute e io fingevo di capire e di ridere. Ma non capivo niente. Due anni dopo, nel mezzo della crisi argentina, avevo imparato lo spagnolo, e tornai a intervistarlo, insieme alla mia amica Marialaura. Ancora non capivo benissimo i doppi sensi e i giochi di parole, ma tutto il resto lo capivo: ridevo, diciamo, al cinquanta per cento. Tre anni dopo, ci rincontrammo: io mi ero messa in testa di tradurre i suoi libri, volevo la sua approvazione. Me la diede. Peccato che non avessi un editore (e ancora non ce l'ho, se qualcuno è interessato, si faccia avanti, il lavoro è quasi finito). Nel frattempo il programma aveva cambiato sede. E quella volta risi a tutte le battute. O quasi.

Chi è Alejandro Dolina?


Musicista, scrittore, cantante e conduttore radiofonico, le notizie sulle sue origini sono tanto incerte quanto contraddittorie: pare comunque che sia nato nella provincia di Buenos Aires, ma che i suoi ricordi migliori siano legati a Caseros, dove trascorse un'infanzia felice. La musica ebbe una parte fondamentale nella sua vita: studiò bandonéon, piano, chitarra e naturalmente, a segnare l'inizio della sua relazione con la musica, è il tango. La sua grande sensibilità per qualsiasi forma d'arte lo ha portato a sperimentarne di diverse. Dopo aver lavorato nella televisione e come giornalista, ha deciso di dedicarsi interamente al programma La vendetta sarà terribile da lui condotto con Guillermo Stronati, Gabriel Rolón e Elizabeth Vernacci per due pubblici affezionati: quello che si sintonizza da ogni angolo d'Argentina e quello formato da più di duecento persone, che si riunisce per assistere dal vivo al programma. Le Cronache dell'Angelo Grigio, presentate alla Fiera del libro di Buenos Aires nel 1996 e prima opera narrativa dell'autore, sono state seguite dall'operetta Cosa mi è costato l'amore di Laura e dal Il libro del fantasma.
Su Dolina pesano alcuni luoghi comuni. Di lui si parla spesso e volentieri come di un "uomo di radio". Ma "la strategia più efficace dell'equivoco è la ripetizione", sostiene Jorge Dorio in una delle introduzioni al libro: "i suoi programmi, essenzialmente sostenuti dall'imprevedibile deriva del suo discorso, sono sempre stati più vicini al fenomeno teatrale, al concerto". La verità starebbe secondo Dorio nell'inversione di questa formula: "mentre Dolina finge di parlare per radio, sta in realtà facendo letteratura". Seguendo le tracce di Omero e Socrate, Alejandro Dolina cammina sul filo sottile che separa narrazione scritta e orale, arricchendo l'una attraverso l'altra. Udirlo o leggerlo sono la stessa cosa, e infatti le cronache libresche e le trasmissioni radio convergono in diversi punti, a partire dallo stile (con il sottile e raffinato humour) e dal linguaggio usato (colloquiale e gergale, i termini in lunfardo si sprecano), fino alle tematiche che, attraverso il recupero di leggende memorie e tradizioni, trasmettono importanti valori e rivelano la sua vera natura: quella di folklorista.

L'intervista che segue è stata realizzata nel luglio del 2001.


sabato 2 febbraio 2013

La dea è morta. Viva la dea!

Qualche tempo fa qualcuno mi aveva chiesto di leggere il racconto con cui mi sono classificata terza al concorso di Accaparlante. Eccolo.

















La dea è morta. Viva la dea!

Without going out of my door
I can know all things on earth.
George Harrison, The inner light

Qui da voi io sarei stata un mostro. E invece sono una dea.
 Io non so camminare, non me l’hanno ancora insegnato. Avevo quattro gambe, ma non potevo muoverle. E camminare poi non mi serviva perché, come vi ho già detto, sono una dea. Gli dei non hanno bisogno di camminare. Gli dei al massimo volano.
Sono nata in un piccolo villaggio dell’India, nel giorno di Diwali, in cui si festeggia la dea Lakshmi, figlia del mare e sorella della luna.
Mentre mia madre si contorceva dai dolori, fuori, le strade del mio villaggio, cinquecento anime sudice e affamate senza acqua corrente e senza elettricità, erano inondate di luci e di candele e fiori di loto, e tutti si scambiavano gli auguri, mangiando dolci e frutta, danzando e pregando davanti all’altare della dea. Erano felici, almeno una volta all’anno, nel mio villaggio.
Io sono spuntata a fatica tra le cosce di mia madre, e per la verità non so come hanno fatto a tirarmi fuori. Mi hanno guardato increduli: hanno contato e ricontato, quattro gambe e quattro braccia. Poi hanno gridato al miracolo. La dea Lakshmi si era reincarnata nel mio piccolo corpicino di mostro. Mi hanno dato il suo nome e subito tutti quanti, uomini, donne e bambini si sono precipitati a venerare la bambina mandata da dio.
 Da quando sono nata, tutti gli anni, durante la festa delle luci, che dura cinque giorni, mi caricano su una lettiga e mi portano in giro a benedire le case. Ma i momenti difficili sono altri. Casa nostra è un continuo andirivieni di pellegrini. È faticoso essere una dea. Non puoi distrarti. I problemi di tutti sono i tuoi problemi. Non puoi sbagliare. E devi sempre dare consigli. Io, per dare consigli, guardo il colore del cielo, guardo le nuvole, il volo degli uccelli, le fronde degli alberi. È tutto quello che riesco a vedere dal letto della mia stanza.
 Io non so camminare, ma imparerò, sono una dea. Me l’ha detto la dottoressa Patil. Quando è arrivata al villaggio, lei mi ha guardato con occhi diversi, e mi ha parlato del futuro. Non avevo mai pensato al futuro. Gli dei vivono in eterno. La dottoressa Patil ha detto che poteva aiutarmi a camminare, se avessi voluto. Per camminare bastano due gambe, ha detto, quattro sono troppe. Dobbiamo toglierne due. Anche quattro braccia, a cosa servono se non le puoi usare… La dottoressa Patil mi ha detto che con due gambe avrei potuto anche correre, correre significa camminare velocemente, serve ad andare lontano senza l’aiuto di nessuno. Io non mi ero mai mossa dal villaggio. Gli dei sono ovunque anche senza muoversi, ho detto alla dottoressa, a cosa mi serve camminare? Per andare dove? Lei allora ha detto una cosa, ha detto che due gambe, e due braccia, dovevamo toglierle, perché altrimenti in poco tempo sarei morta.
Gli dei non muoiono, dottoressa.
Ma i piccoli mostri sì, ha detto lei.
Ho detto va bene. Ho ucciso la dea.

© Lorenza Pozzi