domenica 27 gennaio 2013

Ti porterò a Crema (è una promessa).

Ho già parlato della passione di Emma per i gelati (qui). Magrolina e piccoletta, nonché celiaca, lei si nutrirebbe solo di risotto giallo, nutella e gelati. Non di tutti i gelati. Per lei il vero gelato è quello alla panna, o alla crema. Gli altri sono solo possibilità da non considerare.
Così, mi sono accorta che da qualche tempo a questa parte, ogni volta che dico, in sua presenza, che devo andare a Crema (e ormai ci vado spesso, praticamente tutti i giorni), parte la raffica di domande e suppliche: «Zia, posso venire con te? Dai, posso venire con te?» come un mantra, che alla fine mi fa rispondere: «Non oggi, domani». Domani, ovvero nel futuro. «È una promessa» sentenzia lei. Certo, è una promessa. Finché non troverò la gelateria perfetta. Perché lei è convinta che Crema sia un gelato. Quindi, andare a Crema, può significare, credo, tuffarsi nel gelato, andare a fare scorpacciate di gelato. Non posso deluderla. Sarà il suo paese dei balocchi. Se qualcuno mi sa consigliare la migliore gelateria di Crema, che faccia anche gelato per celiaci, il domani potrà diventare oggi, e la promessa sarà mantenuta. Da una zia che nel gelato si tuffa tutti i giorni.

sabato 19 gennaio 2013

Quando si scrive un libro è come essere dentro una delle Annunciazioni di Maria

Un'altra vecchia intervista.

Abbiamo incontrato Stefano Benni il 10 giugno 2001. Reduce dalla sua ultima fatica, Saltatempo, da molti definito il suo capolavoro, ci ha parlato dei magici e quotidiani elementi che concorrono alla creazione di un'opera artistiica.
 
Quando hai capito che saresti diventato uno scrittore?
Quando una persona di cui avevo molta stima, Grazia Cerchi, ha letto un mio libro e ha detto: "Ci siamo, lupo". Il libro era Comici Spaventati Guerrieri. Da solo non riuscivo a convincermi, quando lei ha detto "ci siamo" mi sono illuminato, ho preso una gran sbronza di vernaccia (ero in Sardegna) e mi sono sentito scrittore. Dopo, poi, nessuno è più riuscito a convincermi del contrario.



Piccolo ritratto di Grazia Cherchi...  
Grazia Cherchi era una signora molto minuta con una faccia bellissima un po' da sarda un po' da india amazzonica, molto caustica con quelli che non amava, molto dolce con quelli che amava, molto rispettata anche dai suoi nemici, che magari le scrivevano delle perfidie però quando la vedevano abbassavano gli occhi… e poi era una persona che leggeva tantissimo, aveva una grande passione per i libri. Aveva scelto di non scrivere lei in prima persona, le sarebbe piaciuto perché aveva, come tutti noi, una sua vanità ma, invece ha preferito aiutare degli scrittori giovani a crescere, a diventare scrittori maturi e l'ha fatto con tanti. Lo faceva con dolcezza ma spietatamente, criticando molto, non era affatto remissiva, non accettava tutto, ma incoraggiava a migliorare, dedicava a questo lavoro moltissimo tempo. Avrebbe sicuramente potuto guadagnare di più facendo la critica accademica, ma era troppo indipendente e troppo poco premiaiola e ipocrita.
Era anche una persona con una grande ironia, e si vedeva nei suoi scritti, però aveva una fiducia illimitata, quasi ingenua, nella possibilità della gente di crescere e questa era la sua dote più bella. A volte prendeva a mano degli scrittori che avevano un talento molto grezzo, sui quali si capiva che c'era da lavorare molto, però accettava questa sfida, esattamente il contrario di quello che fa l'editoria. L'editoria pubblica subito il libro del giornalista o del cretino televisivo, dell'improvvisato sociologo, un libro che già si vende -si vendicchia- subito (perché poi in realtà alla fine i libri che durano sono altri). Se l'editore vede un libro che è appena un po' sghembo, un po' strano dove c'è "da metterci le mani" spesso rinuncia, magari preferisce un libro subito riconoscibile, nel senso che è copiato da un modello: adesso vanno i gialli, tutti sfornano e pubblicano gialli. Lei affrontava degli scrittori magmatici -i miei all'inizio erano probabilmente libri con molti difetti di abbondanza- e poi ti aiutava, non riscriveva una riga, però ti spronava, ti faceva capire che dovevi faticare di più: ecco in questo era assolutamente anomala nel panorama dell'editoria, in questo suo cercare sempre delle sfide difficili. Io non ero una sfida facile all'inizio perché ero uno scrittore, credo, con un certo talento ma pieno di deviazioni, ridondante, pieno di dubbi e tutte le volte che scrivo un libro è come se sentissi la sua voce che mi prende in giro, che mi ammonisce. Grazia Cherchi era questo.

Una ricetta per scrivere un buon libro
Si prendano 2000-2500 libri da una biblioteca e li si leggano uno dopo l'altro con calma. Quando li si sono assimilati e bene amalgamati li si metta da parte in qualche ripostiglio neuronico. Poi si guardi per uno-due giorni la televisione; tutto quello che si vede in televisione, misero, ripetitivo, finto "popolare" lo si lasci da parte, il libro è geneticamente altro. Poi ci vuole una considerevole dose di fantasia e per quella basta andare in giro la notte, leggere, viaggiare, innamorarsi spesso o almeno pensare di essere innamorati. Gli alcolici e le droghe a qualcuno servono, ad altri no. Infine ci vuole una grande fatica, una ricerca tecnica quasi ossessiva e quella la si impara col tempo. Quando si scrive un libro è come essere dentro una delle Annunciazioni di Maria, quei quadri bellissimi del Quattrocento italiano. In questi quadri Maria ha quasi sempre un libro in mano e questo è molto bello; adesso avrebbe un telecomando ma ha un libro, quindi sta aspettando la notizia, sta aspettando l'ispirazione, sta aspettando il suo destino. Entra un angelo, entra l'estro, entra l'ispirazione: l'angelo, che ha delle bellissime ali "araldiche", direbbe il mio amico Cavazzoni, belle ali versicolori, è un bell'angelone e le dà la notizia che Maria è stata prescelta. Quindi è come se l'estro e l'ispirazione ti dicessero: "tu scrittore sei stato prescelto: ecco a te tante meravigliose visioni e idee per il libro". Ma se si guarda bene in tutte queste annunciazioni, appena un po' in secondo piano, c'è San Giuseppe che con la pialla, con la sega, lavora e mantiene la famiglia. Questo allora è il lavoro che si fa per arrivare a un libro: ci vuole l'angelone con le ali, ci vuole l'estro, l'ispirazione, la grande o piccola notizia che viene dal mondo delle grandi letture e delle idee; però poi se non c'è un San Giuseppe artigiano che ci dà di pialla, di sega e di bulino e faticosamente traduce questa visione in "condivisione", non si va avanti. Quindi accettate l'annuncio dell'angelo, siate pazienti come San Giuseppe e come ogni scrittore siate un po' come la Madonna: pensate di avere un grande, unico destino. Per qualcuno il destino sarà di vincere il Campiello, io non lo ritengo un grande destino, per altri di fare libri che durano, per altri di arrivare da Maurizio Costanzo, per altri magari di fare un bellissimo libro che tutti ignoreranno. Il destino sarà diverso: alcuni saranno fortunati, altri sfortunati, alcuni avranno una fortuna immeritata (Grisham) altri avranno meno fortuna di quanto meritano (Vonnegut) e la casistica è varia. Comunque cercate di mettervi al centro di questo quadro.

Il segreto della scrittura
La scrittura ha tanti segreti. In ogni libro c'è un segreto. È un segreto che tiene insieme in modo misterioso l'immaginazione dello scrittore e quella del lettore. Guai a pensare che in un libro ci sia solo l'immaginazione dello scrittore e dall'altra parte ci sia un recipiente vuoto che l'accoglie, che è il lettore. Il lettore va incontro con la sua immaginazione a quella dello scrittore e trasforma il libro. Per fare un esempio, tutti noi abbiamo letto Moby Dick però se io chiedo alle persone di un seminario qual'è la loro pagina preferita di Moby Dick, qual è il piccolo particolare, la pagina che le ha più colpite, la frase, la parola, tutti rispondono diversamente. Questo cosa vuole dire? Che Moby Dick è diventato diverso nell'immaginazione di ognuno. Questo è uno dei segreti della scrittura. Tutti partecipiamo all'aleph, al mondo dello stesso libro, ma il libro è diverso per ognuno di noi. Diventa diverso come? Ad esempio nella rilettura. Il complimento più grande che puoi fare a uno scrittore non è "ti ho letto" ma "ti ho riletto", "ti ho letto due o tre volte" "ho trovato delle nuove cose nel tuo libro" "il tuo libro si è trasformato, è cambiato a ogni rilettura". Perché? Perché appunto il mondo dell'immaginazione ha questa capacità palingenetica, di ricrearsi ogni volta e questo crea la durata del segreto. Un libro può anche restare lì: lo rileggiamo trent'anni dopo e diventa una cosa nuova; questo non accade con la televisione. Riguardo a questo segreto ti racconto un aneddoto. C'era un attore, Lawrence Olivier (questo è un segreto che vale per la scrittura dei libri ma anche per la drammaturgia) che interpretava una commedia in Inghilterra. In Inghilterra le commedie possono restare in cartellone anche quattro-cinque anni, non come in Italia che hanno vite piuttosto brevi. Olivier recitava in questa commedia da molti anni, e naturalmente ogni sera faceva la stessa parte. Com'era questa parte? Nel primo atto lui era un ricco lord inglese, cui andava tutto bene: aveva una bella casa, dei bei cani, una bella moglie, in ordine di importanza per un lord inglese. Aveva molti amici, molti soldi da spendere: era proprio baciato dalla sorte. Nel secondo tempo accadeva il disastro; io non ricordo il titolo della commedia, comunque tutto andava in rovina, il lord faceva bancarotta, la moglie lo lasciava, gli amici si allontanavano, i cani prendevano il cimurro, insomma il lord perdeva tutto, diventava alcolizzato e moriva orrendamente triste, solo e abbandonato nel castello pignorato, impiccato (pignorato il castello impiccato Lawrence Olivier). Una sera venne in camerino uno spettatore e gli chiese: "Sir, come fa lei che nel primo tempo è così pieno di gioia, esplosivo, felice, a recitare così solarmente quando sa benissimo che nel secondo tempo le succederanno quelle cose tristissime?". E Lawrence Olivier rispose: "ma io nel primo tempo non so cosa succederà nel secondo tempo". Lawrence Olivier raccontava così il mistero dell'immaginazione, rivendicava questa capacità dell'immaginazione artistica di rinnovarsi. Ti faccio un secondo esempio. Tu prendi in mano un racconto, I delitti della Via Morgue di Edgar Allan Poe. Se leggi il sorprendente finale (che l'assassino è un orango), in teoria, una volta che tu conosci il segreto di questo racconto non dovresti avere voglia di rileggerlo. Io lo rileggo ancora spesso e tutte le volte ho come la paura che possa finire in un modo diverso, perché Poe che non è un giallista precotto come quelli di oggi, crea una tensione tale che ti tiene sospeso ogni volta, crea quell'esitazione che secondo Todorov è proprio uno dei caratteri del fantastico. Fino all'ultimo momento tu esiti e non sai se ti trovi proprio in un mondo letterario che ben conosci, oppure magari in uno strano mondo intermedio tra lettura e realtà dove i libri possono cambiare il finale. Poi c'è un terzo esempio della vita quotidiana. Io sono babbo di un bimbo di 12 anni e c'è una cosa che detesto nei miei colleghi babbi, quando vanno al cinema. Normalmente i film per bambini sono tutti uguali: fino a 10 minuti dalla fine sembra che vadano a finir male; il bambino in quel momento è molto spaventato, molto teso, molto impaurito e allora il papà cretino gli dice -lo sentii dire veramente da un papà- "ma perché sei spaventato, perché sei così agitato?! Tanto va a finire bene!". Un babbo così è da impiccare per i piedi. Allora possiamo anche dire: lasciamo perdere tutto, non facciamo leggere ai ragazzini Moby Dick e Madame Bovary che vanno a finir male, e lasciamo stare tutte le storie che finiscono bene, non leggiamo più la Divina Commedia che in fondo finisce bene, perché poi Dante esce a riveder le stelle. Il bambino rivendicava giustamente il suo diritto a tenere bene aperte tutte le porte dell'immaginazione e quindi a tenersi la sua paura, la sua esitazione, a dire "io mi voglio godere tutto il mistero di questa storia. Lo so bene che normalmente i film per bambini finiscono bene, però io voglio fino all'ultimo tenermi questa tensione, questa emergenza dell'immaginazione". Non togliete ai bambini questa grandissima curiositè, questa capacità di perdersi nella varietà meravigliosa del mondo dell'immaginazione. Non mettete i sondaggi anche nell'immaginazione, i sondaggi che dicono che l'89% dei film per bambini normalmente finiscono bene… ma anche su questo ci sarebbe da discutere perché Walt Disney era uno dei più grandi e allegri sadici della storia dell'umanità, chissà poi se i suoi film finiscono "bene" ma qui ci vorrebbe un'altra ora di intervista e io sono stanco.

Facciamo un salto indietro: gli animali di Comici Spaventati Guerrieri  
Gli animali perché l'uomo è un animale anche se travestito con pelo e pelli di altri animali, e amo gli animali antropoformizzati, amo molto i cartoni animati. Nei cartoni animati c'è un'onnipotenza plastica, per cui tutto può diventare tutto. Un'anarchia totale e scatenata.

Ti chiamano Lupo…  
Perché quando ero piccolo ero molto selvatico e mi chiamavano così… o forse perché giravo da solo di notte per la campagna, coi miei cani. Avevo meno paura sotto la luna a che in una casa buia. La mia fantasia è nata a lume di candela.

Perché nei tuoi libri protagonisti sono sempre dei bambini?  
I bambini sono degli eroi dell'immaginazione. Buoni o cattivi, ma eroici.

Ti senti più Babonzo, Ebenezer o Lucioleone?  
Questa è una domanda che presuppone una grande conoscenza del mondo benniano. Il Babonzo è un animale fantastico. Mi identifico nel Babonzo perché il Babonzo nasce grande e muore piccolo piccolo, scompare, non si trova più e io da bambino ero molto serioso e adulto, più cresco e più divento cinno - parola dialettale emiliana che significa bimbo, cioè rimbambisco, rimbambinisco e penso che a settant'anni più o meno tornerò a fare stregainalto, che era un bellissimo gioco che si faceva per strada. In Ebenezer mi identifico perché sono ancora innamorato di Carmilla la diavolessa e in Lucioleone mi riconosco, in certe sue tristezze, nella ricerca della dignità, nel fatto che ha un grande rispetto per la memoria e una grande riconoscenza per gli amici che l'hanno aiutato.

La tua paura più grande
Di diventare come certa gente che vedo in giro. Di diventare come le peggiori persone che conosco… anche morire non mi piace molto come idea però insomma ci sono cose forse peggiori di morire. Finire dentro lo spirito di questi tempi, diventare servo: questo sì mi spaventa. Io dovrei esserne immune, ma non si sa mai…

Saltatempo è autobiografico?
Assolutamente no. E' pieno di cose che conosco bene. Possibile che di ogni libro che è scritto in prima persona si debba dire che è autobiografico?

Cinque libri che vale la pena di leggere
Cinque libri per cui vale la pena di vivere, di leggere? Allora: i libri francesi, inglesi, i libri italiani, giapponesi e i libri di tutte le altre parti del mondo: fregata.

Un quadro dell'editoria italiana  
L'editoria italiana è una delle migliori in Europa, non è peggiore delle altre. Basterebbe trasformare la Mondadori in un formaggificio. Resa utile la Mondadori si ha un quadro dell'editoria italiana abbastanza equilibrato: piccole case editrici coraggiose, buone case editrici, come la Feltrinelli, l'Adelphi, che fanno buoni libri, con molte tentazioni e scivoloni commerciali. La cosa brutta è questa: l'adorazione di questi hamburger di guano che sono degli scrittori americani mediocrissimi, che arrivano, conquistano grandi fette di mercato, superpublicizzati e poi magari non si conoscono scrittori americani come Vonnegut. Però non è che in Europa ci siano editorie migliori… forse l'editoria scandinava è meglio ma la francese no di certo.

Un quadro della politica italiana  
Non dico un quadro di Bacon perché Bacon era un grande pittore… L'Urlo di Munch, idem. Forse si potrebbe usare un poster di Berlusconi. È lì che è finita la politica italiana, senza più polis, cos'è? Una poteritica, un'azienditica… lasciam stare la parola polis… non c'è più città, convivenza civile, è come stare in un'azienda ma cambierà, oh sì cambierà… un giorno l'aeroplanino di Berlusconi partirà per le isole Cayman e la storia ci dirà che cos'era: un piccolo gangster mafiosetto e depresso. Io ho fiducia nella storia, avevo 7 in storia al Liceo e avevo anche una professoressa che non era male… un po' in carne ma con una sua grazia angelica. Credo di amarla ancora.

intervista di Lorenza Pozzi per associazione culturale Adelante!

mercoledì 2 gennaio 2013

Né Primo né Secondo né Terzo Mondo. Dante Silva, pittore argentino.


Anni fa mi piaceva fare interviste. Ne feci diverse e alcune le pubblicammo sull'allora neonato sito dell'associazione culturale Adelante!: scrittori, pittori, artisti che mi è capitato di incontrare per svariate ragioni.
Ho sempre pensato che la forma dell'intervista abbia grandi benefici sia sull'intervistato che sull'intervistante. Intervistare qualcuno significa incontrarlo, stabilire un contatto attraverso il corpo, la voce; significa trascorrere del tempo insieme, per conoscerlo e conoscersi meglio. Cenare insieme, parlare, stare in silenzio. Un'intervista è fatta di domande e di risposte, e di domande che a volte non hanno risposta. 
Ho pensato di ripubblicarne alcune qui, perché non vadano perse.
Ho intervistato il pittore Dante Silva a Buenos Aires nel mese di agosto 2001, a casa sua. Lo conoscevo già da un paio d'anni, mi mise in contatto con lui sua sorella Fanny, che abita a Lodi, la prima volta che andai in Argentina nel 1999. Nel 2003 per la rassegna Terra di fuoco dell'associazione Adelante! organizzammo una mostra di sue opere a Casalpusterlengo, insieme a quadri dell'artista Guido Boletti. Fu lui che mi parlò, per primo, della crisi che dopo pochi mesi avrebbe travolto l'Argentina.