mercoledì 27 novembre 2013

Presentazione.


Allora, insomma, Julie è abitata?
C'è un piccolo qualcuno in Julie?
Un altro frutto della passione?
Nascerà?
Si tufferà?
Scenderà un giorno in strada?
Passerà davanti alle edicole?
Si beccherà l'opera in quadricromia della vita?
L'ottimismo amoroso ha scherzato una volta di più con il nulla?
Percosse e lesioni senza intenzione di dare la vita?
Cadrà dal niente nel peggio?
Un frutto nudo precipitato nelle mandibole del mondo...
In nome dell'amore! Il grande Amore!
E il resto del tempo cercherà di capire...
Si costruirà: un'impalcatura di illusioni sulle fondamenta del dubbio, i muri nebulosi della metafisica, l'arredo perituro delle convinzioni, il tappeto volante dei sentimenti...
Metterà radici nella sua isola deserta mandando patetici segnali alle navi di passaggio.
Sì... e passerà lui stesso al largo delle altre isole.
Andrà alla deriva...
Mangerà, berrà, fumerà, amerà, penserà...
E poi deciderà di mangiare meglio, di bere meno, di non fumare più, di evitare le idee, di mettere da parte i sentimenti...
Diventerà realista.
Darà consigli ai suoi figli. Ci crederà un po', giusto per loro.
E poi non ci crederà più.
Ascolterà solo più le proprie tubature, terrà d'occhio i propri bulloni, moltiplicherà gli spurghi,
nella sola speranza di durare ancora un po'....
Durare...
Fino alla fine, spererà in un seguito...
...
Come i bambini...
"Il seguito!"
"Il seguito!"

Il seguito, il seguito...
La cosa tragica, con gli sbarbati, è che pensano che tutto abbia sempre un seguito.
Il mio seguito è l'altro piccolo me stesso che si prepara a darmi il cambio nel grembo di Julie.

Com'è bella una donna in quei primi mesi in cui ti fa l'onore di essere in due!

Ma, santo Dio, Julie, pensi che sia ragionevole? Lo pensi davvero, Julie? Sinceramente... eh? E tu, stronzetto, pensi proprio che sia
il mondo,
la famiglia,
l'epoca giusta in cui atterrare?
Non sei ancora qui e già frequenti cattive compagnie!
Senza un briciolo di buon senso, proprio come tua madre, la "giornalista del reale"...

Daniel Pennac, Ultime notizie dalla famiglia

mercoledì 23 ottobre 2013

Le prigioni del Principe Limone

Le libraie Sommaruga mi hanno ricordato che oggi è il compleanno di Gianni Rodari, e lo vorrei festeggiare con questo brano, che parla anche un po' di cose attuali.

***
In breve: Cipollone fu condannato a stare in prigione per tutta la vita, anzi, fin dopo morto, perché nelle prigioni del Principe Limone c'era anche il cimitero.
Cipollino lo andò a trovare e lo abbracciò:
- Povero babbo! Vi hanno messo in carcere come un malfattore, insieme ai peggiori banditi!
- Figlio mio, togliti quest'idea dalla testa - gli disse il babbo affettuosamente. - In prigione c'è fior di galantuomini.
- E cos'hanno fatto di male?
- Niente. Proprio per questo sono in prigione. Al Principe Limone non piace la gente per bene.
Cipollino rifletté un momento e gli parve d'aver capito.
- Allora è un onore stare in prigione?
- Certe volte sì. Le prigioni sono fatte per chi ruba e per chi ammazza, ma da quando comanda il Principe Limone chi ruba e ammazza sta alla sua corte e in prigione ci vanno i buoni cittadini.
- Io voglio diventare un buon cittadino - decise Cipollino - ma in prigione non ci voglio finire. Anzi, verrò qui e vi libererò tutti quanti.
In quel momento un Limonaccio di guardia avvertì che la conversazione era finita.
- Cipollino - disse il povero condannato - tu adesso sei grande e puoi badare ai fatti tuoi. Alla mamma e ai tuoi fratellini ci penserà lo zio Cipolla. Io desidero che tu prenda la tua roba e te ne vada per il mondo a imparare.
- Ma io non ho libri, e non ho soldi per comperarli.
- Non importa. Studierai una materia sola: i bricconi. Quando ne troverai uno, fermati a studiarlo per bene.
- E poi che cosa farò?
- Ti verrà in mente al momento giusto.
Gianni Rodari, "Schiaccia un piede Cipollone al Gran Principe Limone", in Tante storie per giocare

sabato 28 settembre 2013

Il sonno dei siciliani


"Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali; e, sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagagliaio. Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che voglia scrutare gli enigmi del nirvana. Da ciò proviene il prepotere da noi di certe persone, di coloro che sono semi-desti; da ciò il famoso ritardo di un secolo delle manifestazioni artistiche ed intellettuali siciliane: le novità ci attraggono soltanto quando le sentiamo defunte, incapaci di dar luogo a correnti vitali; da ciò l'incredibile fenomeno della formazione attuale, contemporanea a noi, di miti che sarebbero venerabili se fossero antichi sul serio, ma che non sono altro che sinistri tentativi di rituffarsi in un passato che ci attrae appunto perché è morto."
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo 

giovedì 22 agosto 2013

Prima o poi l'amore arriva.

illustrazione di Kristina Swarner
A un passaggio a livello
lontano dal mondo
un giorno d’agosto assolato
un capostazione annoiato
vide a un finestrino
di un accelerato
una signora bruna
e più non lavorò
passava le serate
a guardare la luna
e i treni si scontravano
ma lui non li sentiva
prima o poi l’amore arriva.

Stefano Benni

giovedì 1 agosto 2013

Principi e principesse.

«Lo sai Emma che domenica è il compleanno di Giorgio?»
«Gli regaliamo un costume da principe così lo sposo?» Emma, 3 anni e sette mesi

mercoledì 31 luglio 2013

Libri.

«Zia tu sei adorosa di libri!»
«Eh?»
«Sei piena di libri! Sempre libri, solo libri. Un giorno ti porto con me a comprare qualcos'altro».
Emma, 3 anni e 7 mesi.

martedì 30 luglio 2013

Viaggi.

«Zia, non voglio che vieni in Sicilia»
«Ah no? Allora andrò da un'altra parte!»
«No. Tu e lo zio dovete stare a casa»
«!!!!»
«Dovete stare a casa a curare i miei libri»
Emma, 3 anni e 7 mesi

lunedì 29 luglio 2013

sabato 20 luglio 2013

Scrivere un romanzo di ottantamila parole

 

"Scrivere un romanzo, ho detto una volta, è più o meno come montare con i mattoni i del Lego tutte le catene montuose d'Europa. O costruire un'intera Parigi, case piazze viali torri sobborghi, sono all'ultima panchina di un parco, usando solo fiammiferi e mezzi fiammiferi.
Per scrivere un romanzo di ottantamila parole bisogna prendere, cammin facendo, circa un quarto di milione di decisioni: non solo sull'andamento dell'intreccio, su chi vivrà e chi morirà, chi amerà e chi tradirà e chi diventerà ricco o andrà in rovina e sui nomi dei personaggi e le loro facce e le loro abitudini e il loro mestiere, e su come suddividere in capitoli, e sul titolo del libro (sono le decisioni facili da prendere, quelle categoriche); non solo quando dire e quando occultare e che cosa viene prima e che cosa viene dopo e che cosa svelare fin nei dettagli e che cosa solo per allusione (anche queste sono decisioni semplici). Bisogna soprattutto prendere miriadi di decisioni sottili, come ad esempio se mettere lì, nella terza frase verso la fine del brano, blu o celeste? O azzurro? O magari celeste a scuro? O azzurro cenere? E questo azzurro cenere, poi, va scritto già all'inizio della frase? O non è meglio spanderlo solo alla fine della frase? O in mezzo? O lasciarlo invece come una frase brevissima a sé stante, un punto davanti e un punto e una nuova riga dietro? O no, forse è meglio che questo colore sia intinto nella corrente di una frase lunga e composita, articolata e fitta di termini? Forse invece conviene proprio scrivere in quel punto solo tre parole, "luce della sera", senza tingere quella luce della sera di alcun grigio celeste o azzurro cenere?" 
Amos Oz, Una storia di amore e di tenebra

martedì 9 luglio 2013

Scrivere è un mestiere.


Non occorre essere o sentirsi un mostro per esigere ogni tanto due o tre ore di assoluta tranquillità. L'orario dovrebbe diventare un'abitudine, e l'abitudine, come la scrittura stessa, un modo di vivere. Dovrebbe diventare una necessità; allora si potrà lavorare, e si lavorerà sempre. È possibile pensare per tutta la vita come uno scrittore, voler essere uno scrittore, eppure scrivere di rado, per pigrizia o per mancanza di abitudine. Persone così possono scrivere mediamente bene, quando ci si mettono - spesso scrivono tantissime lettere - e magari vendono anche qualcosa, ma non è detto. Scrivere è un mestiere e richiede una pratica costante.
«Dipingere non è questione di sognare, o di essere ispirati. È un lavoro manuale, e ci vuole un buon artigiano per farlo bene». Lo ha detto Pierre Auguste Renoir e credo valga la pena ricordare questa frase, di un artista e di un maestro.
E Martha Graham, sull'arte della danza, ha detto: «È una curiosa combinazione di abilità, intuito e direi spietatezza -  più quell'intangibile meraviglioso che si chiama fede. Se non avete questa magia potete fare una cosa bella, potete fare trentadue fouettés, e non conta niente. Credo che questa cosa nasca dentro di voi. È qualcosa che si può estrarre da alcuni, ma non instillarla, non la si può insegnare».
Renoir parla del mestiere, Martha Graham del talento, del genio. Le due cose devono andare di pari passo. Il mestiere senza talento non ha gioia né sorprese, niente di originale. Il talento senza mestiere - be', come farà il mondo ad accorgersene?
Grandi musicisti, scultori o attori hanno detto cose simili a quelle citate, perché tutte le arti sono una, tutti gli artisti hanno dentro uno stesso nucleo, ed è soltanto il caso a determinare se un artista diventerà musicista, pittore o scrittore. Ogni arte si basa su un desiderio di comunicare, un amore per la bellezza, un bisogno di creare ordine dal disordine.
Patricia Highsmith, Come si scrive un giallo


giovedì 4 luglio 2013

La signora delle carte.


La signora ripete spesso «Calma e sangue freddo». È il suo modo per affrontare il mare di carte nel quale sta affogando. La signora è ossessionata dal tenere traccia di tutto. Ho provato a spiegarle che il computer ha una sua memoria, ci pensa lui, ma è anziana, e non si fida. Così stampa tutto, tutte le mail che arrivano, tutti i documenti. Tutto. A volte anche due volte lo stesso documento.
«Bisogna fare ordine», dice.
Ho provato a spiegarle non solo l’impatto ambientale della sua azione stampatrice, ma anche l’inutilità della stessa. Ma non mi ascolta, o forse non mi crede. È anziana, e crede solo a quello che può toccare con mano: la carta. Non crede che il computer possa essere già di per sé un archivio.
È così ossessionata dall’ordine, che passa le giornate stampando e impilando foglietti, post-it gialli rosa e arancio, appunti presi a mano e carte, etichettando e inserendo tutto in faldoni di colori diversi. Faldoni che si accumulano sugli scaffali, e che lei dimentica il giorno dopo averli fatti, faldoni che apre passandone in rassegna il contenuto con scrupolo, leggendo e rileggendo ad alta voce, faldoni che disfa e rifa in modo diverso. 
La sua ossessione di ordine genera disordine che si ricompone in ordine (momentaneo) per poi esplodere di nuovo, una miriade di coriandoli colorati sparsi per la stanza.
E si riparte da capo. Bisogna fare ordine. Calma e sangue freddo. 
Lo dico io. Con questo caldo.

martedì 2 luglio 2013

Plumcake al limon.

Se c'è una cosa che mi manda in bestia è svegliarmi la mattina e non avere niente per colazione. Succede quando manca il caffè, o lo zucchero, o i biscotti, o le brioches, o qualsiasi cosa mi faccia iniziare la giornata. Perché senza colazione la mia giornata non parte e sicuro che qualcosa va storto. In quelle occasioni succede che a volte mi decido a far colazione fuori, anche se la colazione al bar dev'essere un piacere e non un ripiego. E poi quando mi sveglio, prima di qualsiasi cosa, io devo riempire lo stomaco.
Così ieri sera, a mezzanotte meno un quarto, dopo essermi ricordata che erano tre giorni che io e l'Orso sgranocchiavamo avanzi di biscotti secchi e che per la disperazione avevo pure assaggiato cantuccini avanzati  e scaduti al sapore di vomito, ho consultato l'app di Giallozafferano, cercando una ricetta che non mi tenesse sveglia fino alle quattro del mattino, e ho trovato questa, ho controllato di avere gli ingredienti, miracolosamente li avevo (avevo persino i semi di papavero!), mancava solo un uovo, ho pensato Un uovo non fa la differenza, ho letto Colagrande mentre il plumcake cuoceva nel forno (che Colagrande ti fa davvero compagnia) e stamattina ho fatto una degna colazione.


lunedì 1 luglio 2013

L'ingombro.


Lo scrittore Veronesi dice che la scuola di scrittura serve proprio a questo, a liberarti, mentre scrivi, di tutti quegli ingombri che fan parte della tua storia personale o del tuo temperamento, della tua cultura o del tuo momento presente; quegli ingombri che magari ti sembrano utili dal punto di vista dell'ispirazione creativa letteraria, ma invece, dice lo scrittore Veronesi, t'intrappolano nelle reti del dilettantismo. Insomma, per riprendere l'esempio della cena degli scrittori sulle colline modenesi, gli ingombri sono delle specie di blocchi intestinali. 
Il lavoro principale dello scrittore, dice Sandro Veronesi, deve essere quello di tenere pulito il proprio potenziale, che, dico io, è come dire il proprio intestino. E gli ingombri sono quelli che impediscono allo scrittore di spingersi fino al proprio estremo limite. Sul punto richiamo tutti i temi semantico-idraulico-evacuativi trattati nel paragrafo della tubatura, limitandomi ad aggiungere che la liberazione dall'ingombro, secondo lo scrittore Veronesi, è quello che distingue il professionista dal dilettante.
E qui il discorso prosegue come se lo scrittore Veronesi rispondesse a tante domande immaginarie. Tipo: secondo te (è una domanda immaginaria, perché Veronesi dà già la risposta) lo scrittore che traduce in letteratura il suo personale vento di sofferenze e tribolazioni è dilettante o professionista?
Mah, risponderei con voce incerta, in linea di massima direi che uno così è abbastanza professionista. Sbagliato, è dilettante. Il professionista quando soffre smette di scrivere, il dilettante quando soffre comincia a scrivere. Cioè, il professionista lotta e si oppone al vento delle sofferenze e delle tribolazioni e poi dopo, una volta risolto il conflitto, magari vincendo o perdendo, comincia a scrivere. Il dilettante invece brum!, dice Veronesi, becca al volo questo flusso di merda - che nell'universo veronesiano rappresenta le sofferenze -  e per terapia o consolazione, si mette a scrivere. Riprendendo la metafora di prima, il dilettante scrive trattenendo l'ingombro, che anche da un punto di vista fisiologico non va bene, che son tutti veleni nell'organismo, il professionista evacua l'ingombro e poi scrive.
Altra domanda immaginaria: scrive di più un dilettante o un professionista?
Mah, direi io, non so se anche qui c'è dietro il trabocchetto, ma mi sembra che scriva di più il professionista. Sbagliato, il dilettante. E a scrivere guadagna di più il dilettante o il professionista? E qui mi gioco una palla se è giusta la prima, che vien da dire che un professionista che guadagna meno di un dilettante non dico che è sfigato patocco ma sicuro è messo un po' male a livello professionistico, quindi direi il professionista. No carino, sbagliata anche questa. Guadagna di più il dilettante, che stiam parlando di scrittori, mica di geometri, non puoi applicare le stesse categorie logiche e tariffarie. 
E poi, ultima domanda: fa' conto di vedere due attori, uno che recita a memoria e uno che recita leggendo, qual è dei due l'attore professionista?
Paolo Colagrande, Fìdeg

domenica 30 giugno 2013

Basta, Benito!

Benito è un vecchio bulldog che abita al primo piano nella casa di fronte alla mia. È vecchio, grasso e malandato. Vive con la sua padrona, che non ho mai visto ma di cui ho sempre sentito la voce, e che secondo me gli assomiglia pure. Benito ogni tanto esce di casa, ma si trascina a fatica, non so se perché è vecchio o perché è grasso, fa pochi passi e stramazza al suolo, la lingua a penzoloni, che faccia caldo o freddo è sempre la stessa scena. La maggior parte del tempo la passa in casa alla finestra. Giorno e notte, non so se dorme. Una cosa l'ho capita, però: a Benito danno fastidio le cose che si muovono. E così, dal balcone del primo piano dove abita, che poi non è un balcone ma una ringhiera davanti a una finestra, Benito abbaia a tutto quello che si muove, ai passanti, alle auto, alle moto, alle mosche e alle zanzare. È un abbaiare lento, strano, scuro, seguito sempre dalla voce, anche quella stanca e rassegnata, della padrona, «Benito, basta! Basta, Benito!». A volte solo Basta. Ma è più forte di lui. Non lo fa mica apposta. E alla fine, nel mezzo della notte, non sai se ti da più fastidio Benito che abbaia o la padrona che dice Basta Benito.

sabato 29 giugno 2013

Ritratti/1: Umberto Eco.

Illustrazione di Tullio Pericoli
(...) le volte che guardo Umberto Eco, in fotografia che dal vivo non l'ho mai visto, mi sembra proprio un avverbio. Uno di quelli che prolungano e slanciano la frase e danno autorità al discorso. Te guardi Umberto Eco e pensi: audacemente, perspicacemente, sagacemente, oziosamente, intellettualmente. Poi lo guardi meglio e pensi: storicamente, postmodernamente, metafisicamente, poliziescamente, contemporaneamente. Lo vedi di tre quarti, c'è un campionario fotografico che te lo fa vedere bene in tutte le posizioni: cosmologicamente, labirinticamente, heideggerianamente, hitchcockianamente, lector in fabulamente. E così via.
Paolo Colagrande, Fìdeg

venerdì 28 giugno 2013

L'editing.

Dice Piergiorgio che l'editing è un lavoro misterioso. A livello di definizione scientifica è la messa a punto redazionale di un testo prima della composizione. Nella sostanza però, dice Piergiorgio, è un lavoro di cucina e, come tutti i lavori di cucina, bisogna esser capaci e aver il senso degli ingredienti e del palato. Proprio un lavoro misterioso. Tanto misterioso che quando anche Nello Benazzi si mette caritatevolmente a rispiegarmelo con parole sue, usando metafore con Heidegger e l'ermeneutica, mi viene il mal di testa e lo interrompo: dimmelo te cosa vuol dire fare l'editing su questa cosa che ho scritto.
Lui non mi risponde con le parole ma con un gesto fisico e materico, di quelli che, come dice Camus, ti priva dei ricordi di una patria perduta e della speranza di una terra promessa: il gesto è quello di prendere un libro facendo conto che sia il mio libro e di buttarlo idealmente nel cesso.
Ecco cosa vuol dire far l'editing alla cosa che hai scritto, dice.
Gesti che segnano il distacco dell'uomo dalla vita, il divorzio tra l'attore e la scena, direbbe ancora Camus.
Paolo Colagrande, Fìdeg.

mercoledì 26 giugno 2013

Giochi con l'amaca (la maca)


"Avvolgiamoci bene, chiudiamoci dentro!"
"Sì, siamo due bruchi che presto si trasformeranno in farfalle. Io sono un bruco verde che si trasformerà in una farfalla blu, e tu Emma cosa sei?"
"Un bruco arancione che si trasformerà in una farfalla arancione".
(...)
"Zia, adesso facciamo che siamo due lumache".
"Va bene".
"Due lumache che si trasformano in... orsi!"

domenica 23 giugno 2013

La strega del cane.

Illustrazione di Anna Laura Cantone
Qui nel palazzo sono tutti un po' spaventati. È tornata la strega, dicono. La strega ha sempre abitato qui, ma ha sempre camuffato bene la sua natura streghesca. Sembra strano, ma ha anche dei genitori, un fratello e un cane. Strano, perché di solito non si pensa alla famiglia delle streghe. Eppure sono convinta che nessuno nasca strega. Strega si diventa. È la vita a incattivirti. Nel caso della nostra strega, forse è successo qualcosa che noi non sappiamo. Forse un uomo, un amore finito male. Ma a renderla cattiva adesso è il suo cane. Il cane che lei porta tutti i giorni a fare i bisogni nel giardino comune. Il cane che lei non ama, perché altrimenti lo farebbe passeggiare fuori, nei campi o in città. Il cane che lei richiama con voce stridula, e le rose e le siepi cominciano ad appassire. La strega non ama i bambini. E i bambini, quando la vedono, fuggono spaventati. Lei mormora parole oscure, lancia maledizioni e mozziconi di sigarette, delimitando il suo territorio. Chi ha qualche formula magica da insegnarmi? Per mandarla via o per trasformarla in fata.

martedì 18 giugno 2013

Vorrei riportare le conchiglie al mare.


Ogni anno, nel mese di giugno, per me è come una fine e un inizio. Sono rimasta agganciata ancora ai ritmi della scuola. L'inizio fa sì che senta la necessità di riordinare e buttare cose, vestiti e oggetti, e mi ritrovo a frugare in scatole e cassetti per mettere in ordine. Solo che a volte l'ordine è impossibile, così questi tentativi di sistemare le cose che sono insistemabili, si trasformano in struggenti amarcord. Passo dai biglietti dei concerti ai foglietti scritti a scuola, da appunti dell'università a foto recenti stampate e mai organizzate in album. E poi saltano fuori quelle cose che non ricordavo nemmeno più di avere, come ad esempio gli scatolini neri che un tempo custodivano i rullini delle macchine fotografiche, solo che ora contengono sassolini e conchigliette bianche e rosa raccolte in qualche spiaggia. E sento il richiamo del mare, perché quelle conchiglie a gran voce mi chiedono di essere ancora accarezzate dalle onde, perché appartengono al mare che solo può decidere il loro destino... E allora so che devo andare.

sabato 25 maggio 2013

Piovve per giorni e mesi


ll male era che la pioggia scombinava ogni cosa, e nelle macchine più aride spuntavano fiori tra gli ingranaggi se non venivano lubrificati ogni tre giorni, e si ossidavano i fili dei broccati e nascevano filetti di zafferano sulla roba bagnata. L'atmosfera era così umida che i pesci sarebbero potuti entrare dalle porte ed uscire dalle finestre, nuotando nell'aria delle stanze. Una mattina Ursula si svegliò sentendo che stava esaurendosi in un deliquio di placidezza, e aveva già chiesto che le facessero venire padre Antonio Isabel, magari in lettiga, quando Santa Sofia de la Piedad scoprì che aveva la schiena piastrellata di sanguisughe. Gliele staccarono ad una ad una, bruciacchiandole con tizzoni, prima che finissero di dissanguarla. Fu necessario scavare canali per prosciugare la casa, e sbarazzarla dai rospi e dalle lumache, di modo che si potessero asciugare i pavimenti, e togliere i mattoni da sotto le gambe dei letti e camminare di nuovo con le scarpe.
Gabriel García Márquez, Cent'anni di solitudine

venerdì 19 aprile 2013

I siciliani non ammazzano di domenica.


I milanesi ammazzano al sabato era il titolo di un libro di racconti di Scerbanenco che aviva liggiuto tanti anni avanti. E ammazzavano il sabato pirchì negli altri giorni erano troppo occupati a travagliare.
I siciliani non ammazzano di domenica era inveci un possibile titolo di un libro che non era mai stato scritto da nisciuno.
Pirchì i siciliani la duminica vanno alla missa matutina con tutta la famiglia, po' vanno a fari visita ai nonni coi quali restano a mangiari, il doppopranzo si vidino la partita alla televisione e la sira, sempre con tutta la famiglia, si vanno a pigliare il gelato. Indove lo trovi il tempo per ammazzare a uno di duminica?
Salvo Montalbano in La pista di sabbia di Andrea Camilleri

domenica 7 aprile 2013

Il prossimo libro.

Subito dopo, il secondo tavolo per possanza mondana era quello di Melissa Turbo, nota bestsellerista nonché moglie dell'industriale dell'auto Flaviano Turbo, proprietario di squadre di pallacanestro, pallamano, pallavolo e altre palle. Melissa brillava rivestita da una frana di collane di diverso spessore, composite di perlone, perline, perloidi, ovoline, nocciole, chicchi, cannolicchi, provole, emisferi, granuloni e biglie. Sorrideva dietro un ventaglio su cui era riprodotta la copertina del suo prossimo libro, per il quale appunto le veniva assegnato il premio.
Prossimo stava per: non ancora scritto.
Da qualche tempo infatti si era deciso di premiare ogni scrittore prima dell'uscita del suo libro, con tre considerevoli vantaggi:
a) si eliminava l'ansia dell'autore (vincerò un premio o no?) e anche la tensione tra gli autori (lo vincerà lui o io?) dato che tutti venivano premiati prima.
b) si eliminava il faticoso lavoro delle giurie e soprattutto la fatica di leggere, lato quanto mai spiacevole del lavoro di giurato, mantenendone però gli aspetti culturali precipui quali il prestigio di essere in giuria e il pranzo finale.
c) si eliminava ogni polemica. Nessuno poteva dire: "Avete premiato un brutto libro" perché nessuno poteva averlo letto.
Per questo il clima tra gli Addetti ai Livori era disteso e sereno, e si intrecciavano brindisi mentre la giuria, seduta a un tavolo stracolmo di rose e rosbif, chiosava l'infelice situazione delle Belle Lettere nel nostro paese.
Stefano Benni, Baol (1990)

domenica 31 marzo 2013

Non chiedete al mare del mare.

Ursula Le Guin
Io credo che l'ultima persona a cui si dovrebbe chiedere di parlare della scrittura sia probabilmente lo scrittore. Se volete sapere tutto del mare, andate a chiederlo a un marinaio, a un oceanografo, o a un biologo specializzato nella vita sottomarina, e loro possono dirvi molte cose sul mare. Ma se andate a chiederlo al mare stesso, che cosa vi risponde? Con mareggi e sciabordii. È troppo indaffarato ad essere se stesso per sapere qualcosa di sé.
Ursula K. Le Guin, Il linguaggio della notte, citato in Storia delle mie storie di Bianca Pitzorno

lunedì 11 febbraio 2013

Forse la quinta è l'idea buona. Intervista a Alejandro Dolina.

Dovessi raccontarvi come ho conosciuto Alejandro Dolina, dovessi. Ma non lo farò.
Ci metterei troppo. Riassumendo: un amico me ne parlò in Francia, nel 1998, e la prima volta che andai a Buenos Aires, assistetti al suo programma radio, La vendetta sarà terribile. Lo trasmettevano dal vivo dallo scantinato dello storico Cafè Tortoni. Non conoscevo la lingua, tutti ridevano alle battute e io fingevo di capire e di ridere. Ma non capivo niente. Due anni dopo, nel mezzo della crisi argentina, avevo imparato lo spagnolo, e tornai a intervistarlo, insieme alla mia amica Marialaura. Ancora non capivo benissimo i doppi sensi e i giochi di parole, ma tutto il resto lo capivo: ridevo, diciamo, al cinquanta per cento. Tre anni dopo, ci rincontrammo: io mi ero messa in testa di tradurre i suoi libri, volevo la sua approvazione. Me la diede. Peccato che non avessi un editore (e ancora non ce l'ho, se qualcuno è interessato, si faccia avanti, il lavoro è quasi finito). Nel frattempo il programma aveva cambiato sede. E quella volta risi a tutte le battute. O quasi.

Chi è Alejandro Dolina?


Musicista, scrittore, cantante e conduttore radiofonico, le notizie sulle sue origini sono tanto incerte quanto contraddittorie: pare comunque che sia nato nella provincia di Buenos Aires, ma che i suoi ricordi migliori siano legati a Caseros, dove trascorse un'infanzia felice. La musica ebbe una parte fondamentale nella sua vita: studiò bandonéon, piano, chitarra e naturalmente, a segnare l'inizio della sua relazione con la musica, è il tango. La sua grande sensibilità per qualsiasi forma d'arte lo ha portato a sperimentarne di diverse. Dopo aver lavorato nella televisione e come giornalista, ha deciso di dedicarsi interamente al programma La vendetta sarà terribile da lui condotto con Guillermo Stronati, Gabriel Rolón e Elizabeth Vernacci per due pubblici affezionati: quello che si sintonizza da ogni angolo d'Argentina e quello formato da più di duecento persone, che si riunisce per assistere dal vivo al programma. Le Cronache dell'Angelo Grigio, presentate alla Fiera del libro di Buenos Aires nel 1996 e prima opera narrativa dell'autore, sono state seguite dall'operetta Cosa mi è costato l'amore di Laura e dal Il libro del fantasma.
Su Dolina pesano alcuni luoghi comuni. Di lui si parla spesso e volentieri come di un "uomo di radio". Ma "la strategia più efficace dell'equivoco è la ripetizione", sostiene Jorge Dorio in una delle introduzioni al libro: "i suoi programmi, essenzialmente sostenuti dall'imprevedibile deriva del suo discorso, sono sempre stati più vicini al fenomeno teatrale, al concerto". La verità starebbe secondo Dorio nell'inversione di questa formula: "mentre Dolina finge di parlare per radio, sta in realtà facendo letteratura". Seguendo le tracce di Omero e Socrate, Alejandro Dolina cammina sul filo sottile che separa narrazione scritta e orale, arricchendo l'una attraverso l'altra. Udirlo o leggerlo sono la stessa cosa, e infatti le cronache libresche e le trasmissioni radio convergono in diversi punti, a partire dallo stile (con il sottile e raffinato humour) e dal linguaggio usato (colloquiale e gergale, i termini in lunfardo si sprecano), fino alle tematiche che, attraverso il recupero di leggende memorie e tradizioni, trasmettono importanti valori e rivelano la sua vera natura: quella di folklorista.

L'intervista che segue è stata realizzata nel luglio del 2001.


sabato 2 febbraio 2013

La dea è morta. Viva la dea!

Qualche tempo fa qualcuno mi aveva chiesto di leggere il racconto con cui mi sono classificata terza al concorso di Accaparlante. Eccolo.

















La dea è morta. Viva la dea!

Without going out of my door
I can know all things on earth.
George Harrison, The inner light

Qui da voi io sarei stata un mostro. E invece sono una dea.
 Io non so camminare, non me l’hanno ancora insegnato. Avevo quattro gambe, ma non potevo muoverle. E camminare poi non mi serviva perché, come vi ho già detto, sono una dea. Gli dei non hanno bisogno di camminare. Gli dei al massimo volano.
Sono nata in un piccolo villaggio dell’India, nel giorno di Diwali, in cui si festeggia la dea Lakshmi, figlia del mare e sorella della luna.
Mentre mia madre si contorceva dai dolori, fuori, le strade del mio villaggio, cinquecento anime sudice e affamate senza acqua corrente e senza elettricità, erano inondate di luci e di candele e fiori di loto, e tutti si scambiavano gli auguri, mangiando dolci e frutta, danzando e pregando davanti all’altare della dea. Erano felici, almeno una volta all’anno, nel mio villaggio.
Io sono spuntata a fatica tra le cosce di mia madre, e per la verità non so come hanno fatto a tirarmi fuori. Mi hanno guardato increduli: hanno contato e ricontato, quattro gambe e quattro braccia. Poi hanno gridato al miracolo. La dea Lakshmi si era reincarnata nel mio piccolo corpicino di mostro. Mi hanno dato il suo nome e subito tutti quanti, uomini, donne e bambini si sono precipitati a venerare la bambina mandata da dio.
 Da quando sono nata, tutti gli anni, durante la festa delle luci, che dura cinque giorni, mi caricano su una lettiga e mi portano in giro a benedire le case. Ma i momenti difficili sono altri. Casa nostra è un continuo andirivieni di pellegrini. È faticoso essere una dea. Non puoi distrarti. I problemi di tutti sono i tuoi problemi. Non puoi sbagliare. E devi sempre dare consigli. Io, per dare consigli, guardo il colore del cielo, guardo le nuvole, il volo degli uccelli, le fronde degli alberi. È tutto quello che riesco a vedere dal letto della mia stanza.
 Io non so camminare, ma imparerò, sono una dea. Me l’ha detto la dottoressa Patil. Quando è arrivata al villaggio, lei mi ha guardato con occhi diversi, e mi ha parlato del futuro. Non avevo mai pensato al futuro. Gli dei vivono in eterno. La dottoressa Patil ha detto che poteva aiutarmi a camminare, se avessi voluto. Per camminare bastano due gambe, ha detto, quattro sono troppe. Dobbiamo toglierne due. Anche quattro braccia, a cosa servono se non le puoi usare… La dottoressa Patil mi ha detto che con due gambe avrei potuto anche correre, correre significa camminare velocemente, serve ad andare lontano senza l’aiuto di nessuno. Io non mi ero mai mossa dal villaggio. Gli dei sono ovunque anche senza muoversi, ho detto alla dottoressa, a cosa mi serve camminare? Per andare dove? Lei allora ha detto una cosa, ha detto che due gambe, e due braccia, dovevamo toglierle, perché altrimenti in poco tempo sarei morta.
Gli dei non muoiono, dottoressa.
Ma i piccoli mostri sì, ha detto lei.
Ho detto va bene. Ho ucciso la dea.

© Lorenza Pozzi

domenica 27 gennaio 2013

Ti porterò a Crema (è una promessa).

Ho già parlato della passione di Emma per i gelati (qui). Magrolina e piccoletta, nonché celiaca, lei si nutrirebbe solo di risotto giallo, nutella e gelati. Non di tutti i gelati. Per lei il vero gelato è quello alla panna, o alla crema. Gli altri sono solo possibilità da non considerare.
Così, mi sono accorta che da qualche tempo a questa parte, ogni volta che dico, in sua presenza, che devo andare a Crema (e ormai ci vado spesso, praticamente tutti i giorni), parte la raffica di domande e suppliche: «Zia, posso venire con te? Dai, posso venire con te?» come un mantra, che alla fine mi fa rispondere: «Non oggi, domani». Domani, ovvero nel futuro. «È una promessa» sentenzia lei. Certo, è una promessa. Finché non troverò la gelateria perfetta. Perché lei è convinta che Crema sia un gelato. Quindi, andare a Crema, può significare, credo, tuffarsi nel gelato, andare a fare scorpacciate di gelato. Non posso deluderla. Sarà il suo paese dei balocchi. Se qualcuno mi sa consigliare la migliore gelateria di Crema, che faccia anche gelato per celiaci, il domani potrà diventare oggi, e la promessa sarà mantenuta. Da una zia che nel gelato si tuffa tutti i giorni.

sabato 19 gennaio 2013

Quando si scrive un libro è come essere dentro una delle Annunciazioni di Maria

Un'altra vecchia intervista.

Abbiamo incontrato Stefano Benni il 10 giugno 2001. Reduce dalla sua ultima fatica, Saltatempo, da molti definito il suo capolavoro, ci ha parlato dei magici e quotidiani elementi che concorrono alla creazione di un'opera artistiica.
 
Quando hai capito che saresti diventato uno scrittore?
Quando una persona di cui avevo molta stima, Grazia Cerchi, ha letto un mio libro e ha detto: "Ci siamo, lupo". Il libro era Comici Spaventati Guerrieri. Da solo non riuscivo a convincermi, quando lei ha detto "ci siamo" mi sono illuminato, ho preso una gran sbronza di vernaccia (ero in Sardegna) e mi sono sentito scrittore. Dopo, poi, nessuno è più riuscito a convincermi del contrario.



Piccolo ritratto di Grazia Cherchi...  
Grazia Cherchi era una signora molto minuta con una faccia bellissima un po' da sarda un po' da india amazzonica, molto caustica con quelli che non amava, molto dolce con quelli che amava, molto rispettata anche dai suoi nemici, che magari le scrivevano delle perfidie però quando la vedevano abbassavano gli occhi… e poi era una persona che leggeva tantissimo, aveva una grande passione per i libri. Aveva scelto di non scrivere lei in prima persona, le sarebbe piaciuto perché aveva, come tutti noi, una sua vanità ma, invece ha preferito aiutare degli scrittori giovani a crescere, a diventare scrittori maturi e l'ha fatto con tanti. Lo faceva con dolcezza ma spietatamente, criticando molto, non era affatto remissiva, non accettava tutto, ma incoraggiava a migliorare, dedicava a questo lavoro moltissimo tempo. Avrebbe sicuramente potuto guadagnare di più facendo la critica accademica, ma era troppo indipendente e troppo poco premiaiola e ipocrita.
Era anche una persona con una grande ironia, e si vedeva nei suoi scritti, però aveva una fiducia illimitata, quasi ingenua, nella possibilità della gente di crescere e questa era la sua dote più bella. A volte prendeva a mano degli scrittori che avevano un talento molto grezzo, sui quali si capiva che c'era da lavorare molto, però accettava questa sfida, esattamente il contrario di quello che fa l'editoria. L'editoria pubblica subito il libro del giornalista o del cretino televisivo, dell'improvvisato sociologo, un libro che già si vende -si vendicchia- subito (perché poi in realtà alla fine i libri che durano sono altri). Se l'editore vede un libro che è appena un po' sghembo, un po' strano dove c'è "da metterci le mani" spesso rinuncia, magari preferisce un libro subito riconoscibile, nel senso che è copiato da un modello: adesso vanno i gialli, tutti sfornano e pubblicano gialli. Lei affrontava degli scrittori magmatici -i miei all'inizio erano probabilmente libri con molti difetti di abbondanza- e poi ti aiutava, non riscriveva una riga, però ti spronava, ti faceva capire che dovevi faticare di più: ecco in questo era assolutamente anomala nel panorama dell'editoria, in questo suo cercare sempre delle sfide difficili. Io non ero una sfida facile all'inizio perché ero uno scrittore, credo, con un certo talento ma pieno di deviazioni, ridondante, pieno di dubbi e tutte le volte che scrivo un libro è come se sentissi la sua voce che mi prende in giro, che mi ammonisce. Grazia Cherchi era questo.

Una ricetta per scrivere un buon libro
Si prendano 2000-2500 libri da una biblioteca e li si leggano uno dopo l'altro con calma. Quando li si sono assimilati e bene amalgamati li si metta da parte in qualche ripostiglio neuronico. Poi si guardi per uno-due giorni la televisione; tutto quello che si vede in televisione, misero, ripetitivo, finto "popolare" lo si lasci da parte, il libro è geneticamente altro. Poi ci vuole una considerevole dose di fantasia e per quella basta andare in giro la notte, leggere, viaggiare, innamorarsi spesso o almeno pensare di essere innamorati. Gli alcolici e le droghe a qualcuno servono, ad altri no. Infine ci vuole una grande fatica, una ricerca tecnica quasi ossessiva e quella la si impara col tempo. Quando si scrive un libro è come essere dentro una delle Annunciazioni di Maria, quei quadri bellissimi del Quattrocento italiano. In questi quadri Maria ha quasi sempre un libro in mano e questo è molto bello; adesso avrebbe un telecomando ma ha un libro, quindi sta aspettando la notizia, sta aspettando l'ispirazione, sta aspettando il suo destino. Entra un angelo, entra l'estro, entra l'ispirazione: l'angelo, che ha delle bellissime ali "araldiche", direbbe il mio amico Cavazzoni, belle ali versicolori, è un bell'angelone e le dà la notizia che Maria è stata prescelta. Quindi è come se l'estro e l'ispirazione ti dicessero: "tu scrittore sei stato prescelto: ecco a te tante meravigliose visioni e idee per il libro". Ma se si guarda bene in tutte queste annunciazioni, appena un po' in secondo piano, c'è San Giuseppe che con la pialla, con la sega, lavora e mantiene la famiglia. Questo allora è il lavoro che si fa per arrivare a un libro: ci vuole l'angelone con le ali, ci vuole l'estro, l'ispirazione, la grande o piccola notizia che viene dal mondo delle grandi letture e delle idee; però poi se non c'è un San Giuseppe artigiano che ci dà di pialla, di sega e di bulino e faticosamente traduce questa visione in "condivisione", non si va avanti. Quindi accettate l'annuncio dell'angelo, siate pazienti come San Giuseppe e come ogni scrittore siate un po' come la Madonna: pensate di avere un grande, unico destino. Per qualcuno il destino sarà di vincere il Campiello, io non lo ritengo un grande destino, per altri di fare libri che durano, per altri di arrivare da Maurizio Costanzo, per altri magari di fare un bellissimo libro che tutti ignoreranno. Il destino sarà diverso: alcuni saranno fortunati, altri sfortunati, alcuni avranno una fortuna immeritata (Grisham) altri avranno meno fortuna di quanto meritano (Vonnegut) e la casistica è varia. Comunque cercate di mettervi al centro di questo quadro.

Il segreto della scrittura
La scrittura ha tanti segreti. In ogni libro c'è un segreto. È un segreto che tiene insieme in modo misterioso l'immaginazione dello scrittore e quella del lettore. Guai a pensare che in un libro ci sia solo l'immaginazione dello scrittore e dall'altra parte ci sia un recipiente vuoto che l'accoglie, che è il lettore. Il lettore va incontro con la sua immaginazione a quella dello scrittore e trasforma il libro. Per fare un esempio, tutti noi abbiamo letto Moby Dick però se io chiedo alle persone di un seminario qual'è la loro pagina preferita di Moby Dick, qual è il piccolo particolare, la pagina che le ha più colpite, la frase, la parola, tutti rispondono diversamente. Questo cosa vuole dire? Che Moby Dick è diventato diverso nell'immaginazione di ognuno. Questo è uno dei segreti della scrittura. Tutti partecipiamo all'aleph, al mondo dello stesso libro, ma il libro è diverso per ognuno di noi. Diventa diverso come? Ad esempio nella rilettura. Il complimento più grande che puoi fare a uno scrittore non è "ti ho letto" ma "ti ho riletto", "ti ho letto due o tre volte" "ho trovato delle nuove cose nel tuo libro" "il tuo libro si è trasformato, è cambiato a ogni rilettura". Perché? Perché appunto il mondo dell'immaginazione ha questa capacità palingenetica, di ricrearsi ogni volta e questo crea la durata del segreto. Un libro può anche restare lì: lo rileggiamo trent'anni dopo e diventa una cosa nuova; questo non accade con la televisione. Riguardo a questo segreto ti racconto un aneddoto. C'era un attore, Lawrence Olivier (questo è un segreto che vale per la scrittura dei libri ma anche per la drammaturgia) che interpretava una commedia in Inghilterra. In Inghilterra le commedie possono restare in cartellone anche quattro-cinque anni, non come in Italia che hanno vite piuttosto brevi. Olivier recitava in questa commedia da molti anni, e naturalmente ogni sera faceva la stessa parte. Com'era questa parte? Nel primo atto lui era un ricco lord inglese, cui andava tutto bene: aveva una bella casa, dei bei cani, una bella moglie, in ordine di importanza per un lord inglese. Aveva molti amici, molti soldi da spendere: era proprio baciato dalla sorte. Nel secondo tempo accadeva il disastro; io non ricordo il titolo della commedia, comunque tutto andava in rovina, il lord faceva bancarotta, la moglie lo lasciava, gli amici si allontanavano, i cani prendevano il cimurro, insomma il lord perdeva tutto, diventava alcolizzato e moriva orrendamente triste, solo e abbandonato nel castello pignorato, impiccato (pignorato il castello impiccato Lawrence Olivier). Una sera venne in camerino uno spettatore e gli chiese: "Sir, come fa lei che nel primo tempo è così pieno di gioia, esplosivo, felice, a recitare così solarmente quando sa benissimo che nel secondo tempo le succederanno quelle cose tristissime?". E Lawrence Olivier rispose: "ma io nel primo tempo non so cosa succederà nel secondo tempo". Lawrence Olivier raccontava così il mistero dell'immaginazione, rivendicava questa capacità dell'immaginazione artistica di rinnovarsi. Ti faccio un secondo esempio. Tu prendi in mano un racconto, I delitti della Via Morgue di Edgar Allan Poe. Se leggi il sorprendente finale (che l'assassino è un orango), in teoria, una volta che tu conosci il segreto di questo racconto non dovresti avere voglia di rileggerlo. Io lo rileggo ancora spesso e tutte le volte ho come la paura che possa finire in un modo diverso, perché Poe che non è un giallista precotto come quelli di oggi, crea una tensione tale che ti tiene sospeso ogni volta, crea quell'esitazione che secondo Todorov è proprio uno dei caratteri del fantastico. Fino all'ultimo momento tu esiti e non sai se ti trovi proprio in un mondo letterario che ben conosci, oppure magari in uno strano mondo intermedio tra lettura e realtà dove i libri possono cambiare il finale. Poi c'è un terzo esempio della vita quotidiana. Io sono babbo di un bimbo di 12 anni e c'è una cosa che detesto nei miei colleghi babbi, quando vanno al cinema. Normalmente i film per bambini sono tutti uguali: fino a 10 minuti dalla fine sembra che vadano a finir male; il bambino in quel momento è molto spaventato, molto teso, molto impaurito e allora il papà cretino gli dice -lo sentii dire veramente da un papà- "ma perché sei spaventato, perché sei così agitato?! Tanto va a finire bene!". Un babbo così è da impiccare per i piedi. Allora possiamo anche dire: lasciamo perdere tutto, non facciamo leggere ai ragazzini Moby Dick e Madame Bovary che vanno a finir male, e lasciamo stare tutte le storie che finiscono bene, non leggiamo più la Divina Commedia che in fondo finisce bene, perché poi Dante esce a riveder le stelle. Il bambino rivendicava giustamente il suo diritto a tenere bene aperte tutte le porte dell'immaginazione e quindi a tenersi la sua paura, la sua esitazione, a dire "io mi voglio godere tutto il mistero di questa storia. Lo so bene che normalmente i film per bambini finiscono bene, però io voglio fino all'ultimo tenermi questa tensione, questa emergenza dell'immaginazione". Non togliete ai bambini questa grandissima curiositè, questa capacità di perdersi nella varietà meravigliosa del mondo dell'immaginazione. Non mettete i sondaggi anche nell'immaginazione, i sondaggi che dicono che l'89% dei film per bambini normalmente finiscono bene… ma anche su questo ci sarebbe da discutere perché Walt Disney era uno dei più grandi e allegri sadici della storia dell'umanità, chissà poi se i suoi film finiscono "bene" ma qui ci vorrebbe un'altra ora di intervista e io sono stanco.

Facciamo un salto indietro: gli animali di Comici Spaventati Guerrieri  
Gli animali perché l'uomo è un animale anche se travestito con pelo e pelli di altri animali, e amo gli animali antropoformizzati, amo molto i cartoni animati. Nei cartoni animati c'è un'onnipotenza plastica, per cui tutto può diventare tutto. Un'anarchia totale e scatenata.

Ti chiamano Lupo…  
Perché quando ero piccolo ero molto selvatico e mi chiamavano così… o forse perché giravo da solo di notte per la campagna, coi miei cani. Avevo meno paura sotto la luna a che in una casa buia. La mia fantasia è nata a lume di candela.

Perché nei tuoi libri protagonisti sono sempre dei bambini?  
I bambini sono degli eroi dell'immaginazione. Buoni o cattivi, ma eroici.

Ti senti più Babonzo, Ebenezer o Lucioleone?  
Questa è una domanda che presuppone una grande conoscenza del mondo benniano. Il Babonzo è un animale fantastico. Mi identifico nel Babonzo perché il Babonzo nasce grande e muore piccolo piccolo, scompare, non si trova più e io da bambino ero molto serioso e adulto, più cresco e più divento cinno - parola dialettale emiliana che significa bimbo, cioè rimbambisco, rimbambinisco e penso che a settant'anni più o meno tornerò a fare stregainalto, che era un bellissimo gioco che si faceva per strada. In Ebenezer mi identifico perché sono ancora innamorato di Carmilla la diavolessa e in Lucioleone mi riconosco, in certe sue tristezze, nella ricerca della dignità, nel fatto che ha un grande rispetto per la memoria e una grande riconoscenza per gli amici che l'hanno aiutato.

La tua paura più grande
Di diventare come certa gente che vedo in giro. Di diventare come le peggiori persone che conosco… anche morire non mi piace molto come idea però insomma ci sono cose forse peggiori di morire. Finire dentro lo spirito di questi tempi, diventare servo: questo sì mi spaventa. Io dovrei esserne immune, ma non si sa mai…

Saltatempo è autobiografico?
Assolutamente no. E' pieno di cose che conosco bene. Possibile che di ogni libro che è scritto in prima persona si debba dire che è autobiografico?

Cinque libri che vale la pena di leggere
Cinque libri per cui vale la pena di vivere, di leggere? Allora: i libri francesi, inglesi, i libri italiani, giapponesi e i libri di tutte le altre parti del mondo: fregata.

Un quadro dell'editoria italiana  
L'editoria italiana è una delle migliori in Europa, non è peggiore delle altre. Basterebbe trasformare la Mondadori in un formaggificio. Resa utile la Mondadori si ha un quadro dell'editoria italiana abbastanza equilibrato: piccole case editrici coraggiose, buone case editrici, come la Feltrinelli, l'Adelphi, che fanno buoni libri, con molte tentazioni e scivoloni commerciali. La cosa brutta è questa: l'adorazione di questi hamburger di guano che sono degli scrittori americani mediocrissimi, che arrivano, conquistano grandi fette di mercato, superpublicizzati e poi magari non si conoscono scrittori americani come Vonnegut. Però non è che in Europa ci siano editorie migliori… forse l'editoria scandinava è meglio ma la francese no di certo.

Un quadro della politica italiana  
Non dico un quadro di Bacon perché Bacon era un grande pittore… L'Urlo di Munch, idem. Forse si potrebbe usare un poster di Berlusconi. È lì che è finita la politica italiana, senza più polis, cos'è? Una poteritica, un'azienditica… lasciam stare la parola polis… non c'è più città, convivenza civile, è come stare in un'azienda ma cambierà, oh sì cambierà… un giorno l'aeroplanino di Berlusconi partirà per le isole Cayman e la storia ci dirà che cos'era: un piccolo gangster mafiosetto e depresso. Io ho fiducia nella storia, avevo 7 in storia al Liceo e avevo anche una professoressa che non era male… un po' in carne ma con una sua grazia angelica. Credo di amarla ancora.

intervista di Lorenza Pozzi per associazione culturale Adelante!

mercoledì 2 gennaio 2013

Né Primo né Secondo né Terzo Mondo. Dante Silva, pittore argentino.


Anni fa mi piaceva fare interviste. Ne feci diverse e alcune le pubblicammo sull'allora neonato sito dell'associazione culturale Adelante!: scrittori, pittori, artisti che mi è capitato di incontrare per svariate ragioni.
Ho sempre pensato che la forma dell'intervista abbia grandi benefici sia sull'intervistato che sull'intervistante. Intervistare qualcuno significa incontrarlo, stabilire un contatto attraverso il corpo, la voce; significa trascorrere del tempo insieme, per conoscerlo e conoscersi meglio. Cenare insieme, parlare, stare in silenzio. Un'intervista è fatta di domande e di risposte, e di domande che a volte non hanno risposta. 
Ho pensato di ripubblicarne alcune qui, perché non vadano perse.
Ho intervistato il pittore Dante Silva a Buenos Aires nel mese di agosto 2001, a casa sua. Lo conoscevo già da un paio d'anni, mi mise in contatto con lui sua sorella Fanny, che abita a Lodi, la prima volta che andai in Argentina nel 1999. Nel 2003 per la rassegna Terra di fuoco dell'associazione Adelante! organizzammo una mostra di sue opere a Casalpusterlengo, insieme a quadri dell'artista Guido Boletti. Fu lui che mi parlò, per primo, della crisi che dopo pochi mesi avrebbe travolto l'Argentina.