lunedì 28 febbraio 2005

Tre. Animali vicini e lontani.

La zona in cui abito è tranquilla. Pochi i rumori esterni, anche se non siamo lontani dalla ferrovia e nemmeno da alcune vie principali della città. In compenso sento tutto quello che dicono e fanno i vicini di casa, con una curiosità a volte morbosa a volte infastidita.
E loro probabilmente sentono me.
Ho due balconi, uno dei quali abbastanza grande. Da questo balcone vedo, di fronte a casa mia una palazzina più bassa; all’ultimo piano abita una signora che ha avuto un figlio da poco.
Dal balcone ogni tanto ricevo qualche visita, un uccellino, una cavalletta, qualche cimice, ma già le farfalle fin quassù non arrivano. Ogni tanto il campanello di una bicicletta mi ricorda che la mia casa non è sospesa nel nulla, agganciata al cielo con fili invisibili, come una gigante altalena.

domenica 27 febbraio 2005

Due. Dentro e fuori.

In questo appartamento di periferia (ma sugli annunci immobiliari si legge: ‘zona centro’) l’atmosfera è calda, temperatura costante intorno ai venti gradi, d’estate e d’inverno, c’è da mangiare, da bere, da fumare e tutto quello a cui ormai siamo abituati ma che ottant’anni fa nemmeno ci si sognava di avere: cento metri quadri di parquet e pavimenti di marmo, due stanze da letto, due bagni, una cucina e una sala, due balconi, acqua corrente, luce e gas, marchingegni elettrodomestici che in molte funzioni sostituiscono l’uomo: lavatrice, televisore, videoregistratore, dvd, stereo, forno elettrico, aspirapolvere, ferro da stiro, frullatore e tre computer, uno scanner, una stampante. E’ arrivata persino l’adiesselle.
Qui ci abita una persona sola. Io.
Mi chiamo Lo e ho – ancora per poco - trent’anni. Da trent’anni vivo studio amo leggo lavoro qui: a Lodi. Da trent’anni respiro l’aria di Lodi, ascolto i rumori di Lodi, vedo la gente e i paesaggi di Lodi. A volte mi chiedo se trent’anni non siano davvero troppi per una città come Lodi.
Io non esco, lavoro in casa. Questo vuol dire che passo molto più tempo di un normale lavoratore dentro le stesse mura in cui faccio altre cose, come cucinare, mangiare, dormire, amare, leggere, guardare la tv, telefonare, lavarmi e tutto il resto. Certo meno tempo di una casalinga come la vicina del piano di sotto. E dei suoi due bambini ululanti.
E’ da qui che voglio partire: dal dentro, dal grembo dei miei pensieri.
Il grembo dei miei pensieri, il mio laboratorio onirico è fatto di legno e di cera, di aromi naturali e di acque calde, di arance e molte parole. E’ fatto di immagini in bianco e nero, dove gli sguardi si incrociano e gli amori diventano possibili. Di lenzuola profumate, calde coperte, bottigliette di sabbia e minuscole conchiglie. Di biglie e musiche che cantano di terre lontane. E’ fatto di rosso e di rosa e di qualche pietra portafortuna, di cioccolato, di balene e di lupi. E di vino e d’assenzio, scambiato in un romantico incontro davanti a un pc. E quintali di carta.

sabato 26 febbraio 2005

Uno. Centro e periferia.

La casa è grande, al quarto piano di un palazzo vicino al centrocittà. E già la parola ‘vicino’ acquista un significato tutto particolare ora, nel ventunesimo secolo. In realtà, andando indietro di un’ottantina d’anni, la casa in questione non solo non esisteva ma era in quella che si poteva allora considerare ‘estrema periferia della città’ e che ora invece è ‘vicino’.
Le distanze non sono aumentate, è cambiata forse la percezione delle distanze, con i mezzi di trasporto che permettono di raggiungere qualsiasi punto in pochi minuti. Perché la città è piccola: una piccola città di provincia. Volendo, la si potrebbe anche girare a piedi.
I piedi degli umani sono gli stessi, forse in ottant’anni è aumentata la falcata, siamo tutti più alti, ma in fondo anche le biciclette non sono poi tanto diverse. E ottant’anni fa già esistevano.

venerdì 25 febbraio 2005

Ma cosa mi dici mai...

Ci ho pensato un po'. Poi ho deciso che mi sarei divertita. In gennaio ho creato questo blog. Ho postato qualche messaggio di prova. Non sapevo che farne. Poi un'amica ha mandato una mail ricordando i "buoni propositi per il 2005". E io, tra i buoni propositi (e lei lo sapeva) avevo messo quello di concludere una delle mille cose che sto scrivendo. Da oggi quindi, una volta al giorno pubblicherò in questo blog (in ordine) pezzi di un "qualcosa", forse un libro, che sto scrivendo. Ha già un nome: Fino a che punto. Non è un romanzo. Ha un inizio e una fine. E' molto autobiografico. Ma mi è venuto così. Frutto delle riflessioni di questo inverno infinito. Grazie, miei venti lettori. Magari sarete proprio voi a dirmi che farne. Un bacio. Lo.

giovedì 24 febbraio 2005

Il celere celerifero.

Il concetto di bicicletta è molto semplice ed è rimasto immutato nei secoli: due ruote, un asse, un manubrio e una catena che collega i pedali alla ruota posteriore. Spiega l’enciclopedia Treccani (cito): Bicicletta: “veicolo a due ruote gommate, poste l'una dopo l'altra, fatto di norma per una sola persona che, a cavalcioni su un sellino, aziona la ruota posteriore con la forza muscolare delle gambe tramite pedali, mentre con le mani impugna il manubrio, sterzando con la ruota anteriore per dare la direzione di marcia al veicolo stesso.” In realtà le ruote non sono sempre state “gommate”, all’inizio non esisteva il sellino e nemmeno i pedali, si doveva camminare, e le suole delle scarpe si consumavano in fretta. Non si poteva sterzare.
Ma che bici è questa? Si chiama celerifero e l’ha inventata nel 1791 un francese, il conte Mede de Sivrac. O forse è solo una leggenda.