Edmondo De Amicis, Sull'oceano
martedì 7 settembre 2010
Migrar
Ma se qualche cosa poteva far sorridere, lo spettacolo, tutt'insieme, stringeva l'anima. Certo, in quel gran numero, ci saranno stati molti che avrebbero potuto campare onestamente in patria, e che non emigravano se non per uscire da una mediocrità, di cui avevano torto di non contentarsi; ad anche molti altri che, lasciati a casa dei debiti dolosi e la reputazione perduta, non andavano in America per lavorare, ma per vedere se vi fosse miglior aria che in Italia per l'ozio e la furfanteria. Ma la maggior parte, bisognava riconoscerlo, eran gente costretta a emigrare dalla fame, dopo essersi dibattuta inutilmente, per anni, sotto l'artiglio della miseria. (...) Tutti costoro non emigravano per spirito d'avventura. Per accertarsene bastava vedere quanti corpi di solida ossatura v'erano in quella folla, ai quali le privazioni avevano strappata la carne, e quanti visi fieri che dicevano d'aver lungamente combattuto e sanguinato prima di disertare il campo di battaglia. (...) E mettevano più pietà, se si pensava a quanti di loro avevan già forse in tasca dei contratti rovinosi, stretti con gli incettatori che fiutano la disperazione nelle capanne, e la comprano; a quanti sarebbero stati afferrati all'arrivo da altri truffatori, e sfruttati tirannicamente per anni; a quanti altri forse portavano già nel corpo, da troppo tempo mal nutrito e fiaccato dalle fatiche, il germe d'una malattia che li avrebbe uccisi nel nuovo mondo. E avevo un bel pensare alle cagioni remote e complesse di quella miseria, davanti alla quale, come disse un ministro, "ci troviamo altrettanto addolorati che impotenti", all'impoverimento progressivo del suolo, all'agricoltura trasandata per la rivoluzione, alle imposte aggravate per necessità politica, alle eredità del passato, alla concorrenza straniera, alla malaria. Mio malgrado, mi risonavano in mente, come un ritornello, quelle parole del Giordani: il nostro paese sarà benedetto quando si ricorderà che anche i contadini sono uomini. Non mi potevo levar dal cuore che ci avevano pure una gran parte di colpa, in quella miseria, la malvagità e l'egoismo umano: tanti signori indolenti per cui la campagna non è che uno spasso spensierato di pochi giorni e la vita grama dei lavoratori una querimonia convenzionale d'umanitari utopisti, tanti fittavoli senza discrezione né coscienza, tanti usurai senza cuore né legge, tanta caterva d'impresari e di trafficanti, che vogliono far quattrini a ogni patto, non sacrificando nulla e calpestando tutto, dispregiatori feroci degli istrumenti di cui si servono, e la cui fortuna non è dovuta ad altro che a una infaticata successione di lesinerie, di durezze, di piccoli latrocini e di piccoli inganni, di briciole di pane e di centesimi disputati da cento parti, per trent'anni continui, a chi non ha abbastanza da mangiare. E poi mi venivano in mente i mille altri, che, empitisi di cotone gli orecchi, si fregan le mani, e canticchiano; e pensavo che c'è qualche cosa di peggio che sfruttar la miseria e sprezzarla: ed è il negare che esista, mentre ci urla e ci singhiozza alla porta.
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