martedì 10 agosto 2010

Lo sparpetuo

Il verbo - ho trascritto diligentemente stamattina - è sparpetià o sparpetejà. Deriva da palpitare, a cui è stato applicato il prefisso s per togliergli il pulsare ritmico delle viscere e immetterci lo scombino degli organismi morenti, i colpi a vanvera degli artigli, l'aria percossa con le ali, la testa che si dimena, il becco che annaspa, le ultime scosse. Si passa così a spalpitare e in seguito, grazie al rotacismo e all'inserimento del suffisso iterativo, a sparpetià. Ma perché - ho ricopiato, - dopo decenni di lontananza da Napoli sparpetuo mi è tornato in mente non per dire, mettiamo, di una gallina sgozzata, ma per assegnare una parola alla follia del corpo dell'ingegnere? Non ho una risposta sicura. Però, azzardo, nel pronunciare le parole, nel pensarle, nello scriverle, assorbiamo ogni loro strato, anche se non ce ne rendiamo conto. Se sparpetuo, dunque, mi evoca l'agonia del morente, palpitare, che è dentro sparpetuo, mi sospinge verso i palpiti d'amore e mi butta in un vortice di senso. Così, da palpiti, salta fuori palpare, e da palpare pàlpere, e da pàlpere palpebra, e da palpebra le ciglia palpitanti e, subito dopo, gli occhi spalpitanti che si chiudono dopo lo sparpetuo. Tuttavia non basta, la catena non si esaurisce qui. In sparpetuo c'è sì palpitare, spalpitare, ma anche perpetuo. Io, per esempio, il lampo dell'energia verbale di perpetuo sono assolutamente sicuro di averlo percepito sempre, sia da ragazzino, quando sentivo sparpetuo in bocca a mia nonna, sia da uomo maturo, quando ero sulla soglia del bagno e vedevo l'ingegnere dimenarsi e torcersi. Lo sparpetuo non è infatti una cosa di pochi secondi a fine vita, ma ci incalza in continuazione. La vita, esclusi pochi momenti di serenità, è tutta uno sparpetuo, uno spalpitio, un tremore, un digrignar di denti con occhi smerzati per l'ansia, fin dalla nascita. Lo sparpetuo, cioè, è perpetuo. E perpetuo mi ha spinto con naturalezza verso un vocabolo toscano, sperpetua. Mai sentito, prima di questa ricerca. La sperpetua è la scalogna, Niccolò Tommaseo ne dà questa definizione: un lamentìo che piange uggiosamente il male passato e presente e che piangendo quasi chiama il male avvenire. Però la cosa più interessante, per me - nel taccuino era sottolineata con l'evidenziatore verde, - è stata apprendere che la sperpetua, all'origine, era nientemeno la lux perpetua del Requiem. Vale a dire: la lux perpetua menzionata nell'uffizio dei morti è diventata in toscano, viaggiando di bocca in bocca, la (luc) sperpetua, la cattiva ventura di dover morire. Facile, a quel punto, immaginarmi che la stessa lux perpetua, vagabondando in napoletano, era diventata lu(c) sparpetuo, gli spasmi dell'agonizzante a un passo dalla morte.
Domenico Starnone, Spavento
nell'immagine: l'orixà Omolu nell'interpretazione di Guido Boletti

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