mercoledì 14 ottobre 2009

Lo chiamavano Saetta.

Di mio nonno ricordo che era vecchio, fumava e faceva i solitari. Era quasi sordo, e quindi parlava poco.
Ogni tanto usciva, andava in centro, forse, noi non lo sapevamo. Era già abbastanza strano, per noi bambine, il fatto che alla sua età uscisse di casa.
Tornava per pranzo e mangiavamo tutti insieme.
Quello che cucinava mia nonna non andava quasi mai bene. Era troppo salato o troppo poco salato, troppo cotto o troppo scotto, e spesso discutevano per il risotto, le cotolette, gli gnocchi o il polpettone, che a noi piacevano tantissimo.
Dopo pranzo si appisolava sulla poltrona, con il plaid sulle gambe. L’ultima volta che l’ho salutato, vent’anni fa, era così, col plaid sulle gambe, e aveva uno sguardo triste, o almeno a me sembra di ricordare che fosse triste, ma forse solo perché dopo qualche giorno è morto.
Una volta all’anno, per il suo compleanno, gli piaceva andare al ristorante a mangiare la frittura di pesce.
Quando è morta anche mia nonna, un paio di anni fa, ho ritrovato delle vecchie foto in bianco e nero, che mi hanno parlato di un uomo diverso, allegro e dinamico, che io non conoscevo se non per sentito dire. Il contrasto tra il mio ricordo e le fotografie era davvero buffo: eppure era la stessa persona.
Non so se ho il rimpianto di aver conosciuto soltanto una parte della vita di mio nonno e di non aver afferrato bene quello che lui realmente era, o se in fondo lui era anche quello, era anche i suoi solitari, le sue sigarette e il suo apparecchio amplifon.
Quando una persona muore, restano soltanto le parole degli altri, restano solo le fotografie, dietro le quali dobbiamo inventarci un mondo e immaginare il fuoriscena e chissà, chissà se è davvero onesto parlare di qualcuno che non c’è più e che si conosceva così poco.

1 commento:

  1. certo che è onesto. perché mentre crediamo di parlare di loro parliamo di noi stessi. e mentre li immaginiamo dobbiamo fare appello a quella frazione di loro che è sopravvissuta in noi. io, perlomeno, sarei felice da lasciare abbastanza di me da permettere a un mio nipote di immaginarmi.

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