lunedì 31 gennaio 2011

Il futuro.

Il fatto è che quando pianti un albero devi pensare a come diventerà: devi vedere il suo futuro, prevederlo. Fargli posto per quando sarà grande. Se no, troppo comodo: tu ti metti attorno tutti gli alberi che vuoi e poi quando sono cresciuti che non ti stanno più in casa, cosa ne fai, li butti?
Bisogna farcene carico, del futuro di chi ci sta intorno. Bisogna pensarci a quel che sarà di loro.
Paola Mastrocola,
Una barca nel bosco

domenica 30 gennaio 2011

Tutto comincia dalle radici.

illustrazione di Serena Giorgi

Tutto comincia dalle radici. La vera crescita è verso il basso, ma nessuno lo pensa mai. Pensiamo sempre che si cresca verso l'alto. Che idiozia! Le madri, ad esempio, tu guarda come sono fiere che i loro pargoli crescano in altezza. Mia madre faceva le tacche sui muri, più o meno sei centimetri ogni anno. E invece... Invece bisognerebbe scavare sotto i piedi dei figli e vedere lì, nella terra, quanto sono cresciuti. Se no poi, da grandi, cadono. Cadono a faccia in giù, come pali mal piantati nel terreno, senza radici.
Paola Mastrocola, Una barca nel bosco

sabato 29 gennaio 2011

La mia casa.

illustrazione di Serena Giorgi

La mia casa

Certi giorni la mia casa è fatta d'aria
per questo la porto con me facilmente.
La casa di una donna è una specie di tempio illuminato
questo è un tipico pensiero maschile
ma ho perso così tante cose nella vita
che so con certezza
di non possedere più nulla.
Potrei essere niente altro che un animale selvatico
e come tale mi basterebbe pochissimo,
un buco in un albero, una tana nella terra
per le volte che ho freddo, che faccio l'amore
o partorisco dei figli.
Quando apro la porta della mia casa
ci sono volte che la vedo volare e svanire
pezzo per pezzo, fogli, tappeti, ninnoli
cose necessarie e cose inutili
tutte per aria, in un mulinello di vento
e nuvole chiare
in quell'ora del mattino
che sveglia gli uccelli e spalanca le rose.
Però quando vieni tu possiedi un fiato magico
o forse sono io che respiro
e l'aria ritorna e il cielo si piega
e allora apparecchio il tempio.

venerdì 28 gennaio 2011

Quella gonna grigia.

Quella gonna grigia è la disperazione di mia madre. Ogni volta che me la vede addosso, le viene da piangere. Cosa ho fatto di male?, si chiede. Non le ho dato abbastanza? Non le ho spiegato che i vestiti brutti e vecchi si buttano via? E mi propone sessioni di shopping a sue spese, che io a volte accetto a volte rifiuto. Sessioni che non risolvono affatto il problema della gonna grigia. Non ricordo da quanti anni ho quella gonna grigia; da tanti; a parte il fatto che non è rovinata, non ci penso proprio a buttarla: serve a risollevarmi il morale. Con quella gonna grigia addosso mi sento io. ps. la gonna della foto è indicativa, la mia è molto più bella :-)

domenica 23 gennaio 2011

A lume di candela.

Dovete sapere che la mia casa ha il difetto di essere molto buia. Le persone in visita non se ne accorgono mai, dicono sempre "che bello, quanti colori". Sì, quanti colori se accendi le luci. Io tutti i giorni vivo nella penombra. E quando vivi nella penombra la luce elettrica diventa la tua àncora di salvezza. Anche solo per rovistare nell'armadio, scegliere che vestito indossare, guardarsi allo specchio, prendere le scarpe nello sgabuzzino, mettersi la crema sulle mani. Tante piccole operazioni così, e non è che puoi continuamente accendere-spegnere-accendere-spegnere. Lo confesso, le luci in casa mia sono sempre accese. E il risparmio energetico? Il senso di colpa è ormai acqua passata: l'ho riversato su chi ha progettato la casa.
Quindi per me avere le luci accese è fon-da-men-ta-le.
L'altra sera, le luci sono saltate nel posto più buio della casa: la cucina.
Visto che l'uomo fai-da-te non era ancora rientrato e qualcosa dovevo pur cucinare, ho acceso tutte le candele che avevo e mi sono messa ai fornelli.
E ho scoperto che a lume di candela diventi più creativo, perché non vedi bene quello che metti in pentola, vai un po' a intuito, a memoria, più che guardare annusi, e il risultato è una sorpresa.
Lui ha pensato che volessi fare una cenetta romantica.
Gliel'ho lasciato credere, ma il giorno dopo gli ho fatto sostituire la lampadina.

sabato 22 gennaio 2011

Il limbo delle fantasticazioni.

L'uomo non è un angelo, e ha molta confusione in testa; si è inventato il linguaggio algebrico per avvicinarsi alla lingua degli angeli ma normalmente quando parla (e anche quando sta zitto) è traversato da molte fantasticazioni, anche in contemporanea, che gli vengono dal fatto che ha un corpo con tutte le sue impellenze, il fatto che ha fame, ha sete, è impaziente di andare a mangiare, ha magari un ascesso a un dente che lo fa sacramentare, o il raffreddore che lo ottunde e non capisce più niente; e poi ha tutti gli umori, che gli variano anche ogni cinque minuti, è nervoso, poi è pacifico, ha sonno, è rincoglionito, amareggiato, disperato, poi ci sono gli altri, i discorsi degli altri, le loro coglionerie, che magari diventano un'ossessione, diventano odi e rancori da cui non si può districare, e quindi un uomo è mediamente un accavallarsi di idee, frasi sentite, rimuginamenti, antipatie, pezzi di maliconia per una fidanzata che non c'è più, ahimè (...) L'uomo è un gran guazzabuglio, e la Bibbia avrebbe dovuto dire che è stato fatto a immagine e somiglianza di un ripostiglio, dove ci finisce di tutto; e quando parla, nel suo discorso tutto questo si insinua, tutto questo ciarpame, nel senso che ogni frase è un accumulo e ci si può trovare sempre traccia di tante cose. Poi l'uomo impara a tenere chiuso quanto più possibile lo sgabuzzino e a tirar fuori un discorso per volta.
Ermanno Cavazzoni, Il limbo delle fantasticazioni

venerdì 21 gennaio 2011

Colazione al bar.

Stamattina mi sveglio e mi accorgo di essere rimasta senza caffè e di avere in dispensa soltanto quei biscotti che mangio al ritmo di uno a settimana, perché fanno schifo, ho sbagliato a comprarli e non li vuole nessuno, ma di buttarli non se ne parla. Così ho fatto colazione al bar.
C'è che io ho la fortuna di abitare vicino a due bar accoglienti, che fanno colazioni strepitose, e allora, lo ammetto, ogni tanto faccio apposta a rimanere senza questo e senza quello, così ho la scusa giusta per uscire presto presto, farmi svegliare dal freddo ed entrare al caldo del profumo di arancia e caffè.
E poi al bar ci sono i cornetti, le brioches o croissant che dir si voglia, alla crema, alla marmellata, al miele, alla nutella e oggi c'erano anche le castagnole, anche se Carnevale è ancora lontano; c'è il cappuccio, il caffè espresso (quello vero), e un viavai di gente che si siede, si sbriciola e chiacchiera, e risveglia il giorno. C'è chi litiga per leggere a scrocco il giornale, e chi va a comprarselo all'edicola di fronte. E anche se il tutto dura in genere una ventina di minuti, quando esci ti sembra di essere in piedi da un pezzo, guardi l'orologio e ti accorgi di non avere avuto mai così tanto tempo.

lunedì 10 gennaio 2011

Legami.

Perché, imparai in seguito, se c'è qualcosa che dà un senso alla vita, è senz'altro il fatto di non essere soggetto ad alcuna legge, di non avere mani e piedi legati. E non importa il tipo di fune o chi ha stretto il nodo. È la corda stessa il male. È con quella che prima o poi si finisce per legarsi da soli o per essere appesi a una forca.
Björn Larsson, La vera storia del pirata Long John Silver.

domenica 9 gennaio 2011

Dialogo nel buio.

Bruegel Parabola dei ciechi

Alla fine disse che nei primi anni di tenebre i suoi sogni erano stati vivi al di là di ogni aspettativa e che era arrivato al punto di desiderarli fortissimamente, ma che sogni e ricordi si erano dissolti uno a uno, fino a scomparire. Non rimaneva alcuna traccia di ciò che era stato, di come era fatto il mondo, dei volti delle persone amate. Alla fine non gli rimase neppure un'immagine della sua stessa persona. Tutto ciò che era stato, non era più. Disse che come per chiunque arrivi alla fine di qualcosa, non poteva fare altro che ricominciare da capo. No puedo recordar el mundo de luz, disse. Hace mucho años. Ese mundo es un mundo frágil. Ultimamente lo que vine a ver era más durable. Más verdadero.
Parlò dei primi anni dopo la perdita degli occhi, nei quali gli sembrava che il mondo che gli stava intorno fosse in attesa dei suoi movimenti. Disse che gli uomini con gli occhi possono scegliere ciò che desiderano vedere ma che per i ciechi il mondo sceglie lui come apparire. Disse che per i ciechi ogni cosa si presenta bruscamente, che nulla viene mai preannunciato. Origine e destinazione si riducono a mere dicerie. Muoversi significa scontrarsi con il mondo: ti fermi a riposare ed esso svanisce.
Cormac McCarthy, Oltre il confine

lunedì 3 gennaio 2011

Su un giglio colto quasi appassito.

Leggo Shakespeare appena finito di scrivere. Quando ho la mente spalancata e arroventata. Allora è sorprendente. Non sapevo quanto fosse prodigiosa la sua tensione, la sua velocità, la sua padronanza delle parole finché non le ho sentite superare e battere in modo schiacciante le mie; sembra che partiamo alla pari e poi lo vedo scattare in avanti e fare cose che io non potrei mai immaginare neppure nella più folle esaltazione e tensione mentale. Perfino i drammi meno conosciuti sono scritti a un ritmo che supera la velocità massima di chiunque altro; e le parole piovono così rapide che non si arriva a raccoglierle. Sentite questa: «Upon a gather'd lily almost wither'd». (Mi è capitata sotto gli occhi per puro caso.) Evidentemente la scioltezza e l'agilità del suo spirito erano tali che egli poteva far rifulgere qualunque idea gli venisse in mente e lasciar cadere sbadatamente una pioggia di fiori inavvertiti come questo. Perché allora altri dovrebbero tentare di scrivere? Questo non è neppure «scrivere». In realtà potrei dire che Shakespeare è addirittura al di là della letteratura, se sapessi cosa intendo dire.
Virginia Woolf, Diario di una scrittrice. Domenica 13 aprile 1930.

domenica 2 gennaio 2011

Le macerie di un racconto.

Un racconto interrotto sembra una città straniera che è stata bombardata, come quelle che si vedono sempre più spesso nei telegiornali. I collegamenti non funzionano più, i ponti sono saltati, le stazioni sono andate distrutte, le piste di atterraggio sono polvere e fumo. Noi, nel mondo per ora al sicuro, ci stavamo preparando ad andare in quella città per lavoro o per turismo. Ne stavamo studiando la topografia, la storia, la vita densa di ogni giorno. Avevamo riempito un quaderno con informazioni, indirizzi, appuntamenti per affari da sbrigare. Se ci avessero dato il tempo di visitarla, casomai di abitarla, avremmo scoperto come entrarci e come uscirne, per quali strade e stradine spostarci dalla periferia verso il centro e viceversa. Ma non è andata così e ora, se proprio vogliamo partire, se ne abbiamo il coraggio, bisogna accontentarsi di ciò che è rimasto: alcuni quartieri sono agevolmente percorribili, lindi; altri hanno edifici intatti accanto a grandi mucchi di macerie, lamiere contorte, tubature tranciate; altri sono nere voragini. La memoria, tuttavia, è zeppa di dati accumulati. Abbiamo visto foto e filmati. Conosciamo nomi di strade e cognomi di conoscenti, anche di parenti. Sappiamo quali sono i migliori ristoranti, gli alberghi più comodi. Per un po' ci siamo allenati persino a parlare la lingua dei suoi abitanti. Perciò proviamo a tenere insieme in un'unica mappa della memoria ciò che della città è rimasto in piedi; ciò che di lei ci siamo immaginati; i sentimenti che abbiamo provato quando le bombe hanno messo a soqquadro, insieme agli edifici, anche i nostri progetti di lavoro, di permanenza; e le macerie.
Domenico Starnone, Spavento.